Resistere. Nonviolentemente.

   1 . “Non avrete il nostro odio…”

Ogni volta che ci troviamo a fronteggiare fatti tragiimagesci – come quelli di Parigi dei giorni scorsi – la prima reazione è quella di protestare con forza, di urlare il nostro sdegno contro qualcuno o qualcosa che riteniamo responsabile di quell’episodio. E’ una tentazione comprensibile, del tutto umana, che ci serve anche per sfogare la rabbia ed il senso d’impotenza  che ci pervadono davanti allo scempio assurdo di vite umane, ma anche di fronte alla minaccia che sembra abbattersi sulla sicurezza e la vita quotidiana di gente come noi. Questo misto di umana compassione e di vago autocompatimento  ci portano allora ad imprecare contro i ‘barbari’ che non rispettano nessuno e non si fermano davanti a nulla. Il fatto è che nelle vittime innocenti degli attacchi terroristici come quello di Parigi noi tutti ci ritroviamo un po’ riflessi, come se improvvisamente ci accorgessimo di quanto fragile è la nostra rete di protezione e di quanto ci troviamo esposti a qualsiasi minaccia, perfino nelle nostre vecchie, care ed inquinate città europee.

L’elemento fondamentale, però, è la percezione che quella minaccia ci viene da ‘fuori’, da un mondo che ci è estraneo  e che, nonostante tutto, ci sta ormai maledettamente vicino, al punto da condividere apparentemente la nostra stessa quotidianità, salvo poi esplodere improvvisamente e violentemente come una maledizione, come una mina calpestata per caso.

La seconda reazione, pertanto, è quella di guardarci intorno, per cercare solidarietà, aiuto e protezione reciproca, alla ricerca – a quel punto piuttosto tardiva – di un’unità che sembra potersi   realizzare solamente in forma di coalizione contro un nemico comune, proprio come fanno gli anticorpi quando combattono un agente infettivo, un corpo estraneo, un elemento nocivo.

Anche questo tipo di risposta, istintiva e molto umana, ci mette comunque in una posizione di difesa, di protezione della nostra stessa sopravvivenza come persone e come comunità, e quindi di reazione contro chi insidia le nostre già malferme sicurezze, sfidando sempre più da vicino il nostro modello di sviluppo e di convivenza civile, lo stile di vita che ci contraddistingue, i punti fermi politico-sociali cui noi occidentali restiamo ancorati, anche se più per pigrizia mentale che per fedeltà ai principi dei ‘padri fondatori’.  Ciò che ne deriva è l’ovvio appello affinché ‘noi’ restiamo  uniti, fermi e determinati davanti a ‘loro’, ai nemici che ci minacciano così platealmente e, per sovrappiù, con la sprezzante sicumera di chi è talmente convinto delle proprie idee da potersi far esplodere insieme a decine di detestati ‘infedeli’.

Abbiamo assistito, purtroppo ancora una volta, all’accavallarsi di dichiarazioni vibranti, testimonianze toccanti, anatemi terribili e, ovviamente, promesse impossibili da concretizzare e retoriche affermazioni di forza e saldezza. Al coro dei pur legittimi e condivisibili richiami a ‘resistere’ a questa barbarie, non accettando di lasciarsi intimidire e contrapponendo la reazione della ripresa della normalità alla paralisi della paura, si sono infatti aggiunte tante voci sgradevolmente stonate, provenienti da tanti governanti che farebbero bene a riflettere sulle loro pesanti responsabilità nell’escalation del terrore, ma anche da sciacalli politici che si affollano sempre intorno ai cadaveri, speculandoci su.

Una delle dichiarazioni più toccanti e profonde di cui abbiamo avuto notizia, viceversa, è stata postata  sul profilo facebook di un signore francese – Antoine Leiris – il quale ha perso l’amata compagna di vita in quel micidiale e cieco scoppio di violenza terroristica. “Vous n’aurez pas ma haine” (Non avrete il mio odio)– ha scritto Antoine in modo fermo, asciutto e privo di retorica, rivolgendosi direttamente a chi gliel’aveva strappata in quel modo assurdo. Non gli interessa sapere chi è stato; sa solo che sono delle ‘anime morte’, gente che uccide ciecamente in nome di quel Dio il cui cuore sta invece trafiggendo con le stesse pallottole che hanno colpito la moglie.

“Allora non vi farò il regalo di odiarvi. Voi lo avete ben cercato ma rispondere all’odio con la collera sarebbe come cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi ciò che siete. Voi volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con occhio diffidente, che sacrifichi la mia libertà in cambio della sicurezza. Avete perso […] Siamo due, mio figlio ed io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo […] (Lui) ha appena 17 mesi, si prepara a mangiare il suo cibo come tutti i giorni, poi andremo a giocare come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo bambino vi farà l’affronto di essere felice e libero. Perché no, non avrete più il suo odio.” [1]

In queste nobili parole, piene di dignità e coraggio civile, penso che si possa e si debba racchiudere l’unica risposta sensata alla violenza cieca di chi crede di servire una causa ma sta solo causando un servizio alla logica spietata della guerra.

2 . Come contrastare il terrorismo e la guerra?

images (1)In un editoriale, il Movimento Nonviolento ha giustamente contrapposto la nonviolenza alla barbarie, prendendo atto che ormai la guerra non è qualcosa cui assistiamo dai nostri teleschermi, proprio come fanno i ragazzi con i videogiochi, bensì una realtà tragicamente vicina e palpabile.

Ed eccola qui, la guerra. E’ arrivata anche alla porta accanto. Con il suo orrore, il terrore, il sangue, i corpi morti. Quando la vedi con i tuoi occhi capisci davvero perché è “il più grande crimine contro l’umanità”. E’ un’unica guerra che si mimetizza in varie forme, che si ciba dello stesso odio e defeca la stessa violenza. E’ sempre la stessa cosa, compiuta da eserciti addestrati, ben armati, finanziati, le cui vittime sono soprattutto i civili innocenti.” [2]

Sì, è proprio vero: piangere i morti ed esprimere solidarietà non serve a nulla se tutto continua ad andare per la vecchia e perversa strada della risposta violenta alla violenza, perpetuando una tragedia che accompagna l’umanità da millenni.  Reagire si deve, ma bisogna farlo evitando di ripercorrere quella solita storia,  che vuol dire ricadere nella tragica spirale della risposta bellica.

Bisogna reagire, ma in modo creativo e costruttivo,  a chi ha fatto della morte e della distruzione il suo unico progetto di vita.  Senza dimenticare però che se tutto ciò è diventato possibile è anche perché la nostra avidità di potere e di risorse ha reso un inferno vivere in certi territori, al punto tale che morire per una causa pseudo religiosa può diventare l’alternativa ad una vita normale cui non si ha diritto. Come ci ricorda il Movimento Nonviolento:

Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie.”  [3]

E evidente – anche se nessuno ce lo dirà ufficialmente – che la strategia delle risposte violente al terrorismo risulta del tutto fallimentare, come ha giustamente sottolineato in un suo articolo Pasquale Pugliese. D’altronde, se il fine ultimo delle azioni terroristiche è quello di renderci tutti più feroci e spietati, anche in questo caso la nostra risposta non può che essere negativa. Chi semina morte indiscriminatamente ed in nome d’un fanatismo integralista non deve avere il nostro odio, perché  non deve riuscire ad imbarbarire anche noi. Basta solo che non presumiamo di essere i ‘buoni’ che lottano contro i ‘cattivi’,  perché questo ruolo di vittime innocenti possiamo riconoscerlo a chi si è visto stroncare la vita mentre assisteva ad un concerto o mangiava in un ristorante, non di certo a coloro che – ufficialmente o di nascosto – per anni hanno alimentato conflitti insanabili, vecchi odi e contrasti, ricorrendo spregiudicatamente al traffico di armi ed all’addestramento di mercenari e spie.

In Europa ci siamo illusi di poter fare guerre ovunque e vendere armi a tutti senza subirne le conseguenze. Abbiamo giocato col fuoco e ci siamo bruciati. Oltre a bruciare, ogni anno, centinaia di miliardi di euro in spese militari “ scrive Pugliese, che così conclude la sua analisi:  “La via da seguire è quella della nonviolenza. Sul piano personale e su quello politico. La via del diritto, della cooperazione, del dialogo, delle alleanze con chi in ogni luogo cerca la pace, della riduzione drastica della produzione e del traffico di armi, dei corpi civili di pace per affrontare i conflitti prima che diventino guerre,della polizia internazionale per fermare chi si pone fuori dal contesto legale dell’Onu. Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie. Anzi, ancora più secca, intelligenza o stupidità.” [4]

La verità, per citare un altro articolo apparso in questi giorni, è che:     “La violenza è il problema, mai la soluzione”, ed infatti anche questo nuovo terribile massacro è frutto della “violenza brutale, alimentata dall’odio, dall’intolleranza, dalla discriminazione, dal fanatismo e dalla vendetta.” [5]

La voce ‘terrorismo’ del “Dictionnaire de la Non-Violence” – curato dall’Institut de recherche sur la Rèsolution Non-Violente des Conflicts di Montreuil (Francia) ci offre altri spunti di riflessione:

“Di fronte al terrorismo, sia gli Stati sia l’opinione pubblica danno prova d’un indignazione selettiva, che tende a banalizzare le altre forme di violenza. Certo, il terrorismo non merita alcuna compiacenza ed i suoi metodi sono effettivamente criminali. Certo, il terrorismo ammazza degli innocenti, ma la guerra non ucciderebbe forse che i colpevoli? […] Il discorso etico della nonviolenza, il giudizio etico condotto sul terrorismo, deve essere ugualmente guidato dagli stessi criteri fondamentali di quelli cui ci si riferisce abitualmente per giudicare la violenza. Il discorso  che condanna il terrorismo avrà tanto meno forza e coerenza se, d’altronde, giustifica altre forme di azione violenta, che non sono meno mortifere e che possono essere altrettanto criminali.” [6] 

3. Strategie nonviolente anti-terrore

images (2)Il fatto è che, di fronte al bagno di sangue di Parigi, non bastano le dichiarazioni di principio. La gente si aspetta che dal movimento pacifista vengano parole chiare, proposte alternative, strategie efficaci e non solo giuste. In un articolo pubblicato nel luglio del 2014 su vari periodici, fra cui Peace Worker, una ricercatrice per la pace dell’università di Portland (USA) aveva già cercato di proporre una strategia in tre fasi per un ‘antiterrorismo’ nonviolento:

“Per prima cosa, smettere immediatamente d’inviare finanziamenti ed armamenti a tutte le parti coinvolte […]Dieci anni di terrorismo e noi pensiamo ancora che le nostre armi non stiano cadendo nelle mani ‘sbagliate’? Quelle in cui esse cadono sono già ‘sbagliate’. Se vi serve un buon esempio, date un’occhiata ai nostri beniamini, l’Esercito Siriano Libero ed alle loro plateali violazioni dei diritti umani, come l’utilizzo di bambini soldati, documentato dall’Osservatorio sui Diritti Umani (HRW) nel 2013 e 2014. Secondo, investire pienamente in iniziative di sviluppo sociale ed economico in ogni regione in cui sono impegnati gruppi terroristi[…] Se vogliamo indebolire ISIS ed ogni altro gruppo impegnato in attività terroristiche, dobbiamo cominciare a concentrarci  sulle esigenze cui essi danno risposta in quelle comunità. Le comunità locali in una regione dovrebbero essere auto-sostenibili ed  i civili dovrebbero sentirsi messi in grado di provvedere a se stessi e alle loro famiglie senza ricorrere alle armi o usare violenza. In terzo luogo, sostenere pienamente tutti gli eventuali movimenti di resistenza nonviolenta della società civile. […] Erica Chenowet e Maria Stephen , nel loro innovative studio del 2011 sulla resistenza civile – intitolato “Perché la resistenza civile funziona”-  hanno rilevato che: “…tra il 1900 ed il 2006, le campagne di resistenza nonviolenta, sono state capaci quasi in misura doppia di conseguire pieno e parziale successo, rispetto alle loro controparti violente…” [7] 

Ho già affrontato la questione in un mio precedente articolo dello scorso aprile, nel quale ho cercato di delineare una posizione ecopacifista nei confronti della sfida del terrorismo islamista, ma soprattutto dell’escalation bellicista che, alimentata dalla strage di Parigi, sta raggiungendo in questi giorni un’ulteriore acme. In questi ultimi anni, osservavo allora, chi si schiera contro le rappresaglie armate è accusato di non voler tutelare la sicurezza nazionale e di cedere alla minaccia terrorista, mentre è sotto gli occhi di tutti che le prodezze della linea guerrafondaia sono riuscite solo a rafforzare la strategia violenta dei movimenti islamisti.

“La nostra martellante propaganda anti-jihadista, paradossalmente, è riuscita a partorire un estremismo islamico ancor più feroce e combattivo, evocando un assurdo clima da crociate, di cui hanno fatto le spese in particolar modo le minoranze cristiane dei paesi arabi. La radicalizzazione del conflitto, però, non è stata un indesiderabile ‘effetto collaterale’ della escalation militare degli ultimi anni. E’ stata piuttosto la logica conclusione di una serie di scelte sbagliate, affrettate e miopi da parte di un sistema che, dipendente com’è dal complesso militare-industriale, alimenta nuove guerre, utilizzando anche l’arma della guerra psicologica” [8]

Ecco perché il movimento italiano per la pace deve scuotersi, superando gli slogan ma anche il mentalismo politichese di chi pensa che i conflitti armati si risolvano solo prendendo coscienza delle loro cause e schierandosi in qualche modo da una parte o dall’altra.  Ci troviamo a fronteggiare una situazione estremamente complessa e delicata, dove è piuttosto facile scovare e denunciare le responsabilità e demistificare gli inganni mediatici, ma molto più difficile fornire soluzioni che sfuggano alla logica perversa della violenza. Per esorcizzare il mostro cui abbiamo irresponsabilmente dato vita non basta dissociarsi, perché – come scrive l’IFOR in un suo comunicato:

 “… il terrorismo non esiste in un vuoto, ma all’interno di un contesto globale d’instabilità, causato ed esacerbato dalla guerra in corso, da operazioni clandestine, dalla repressione militare e poliziesca, dalla povertà e dall’abbandono […] Noi siamo impegnati a trovare mezzi per scoraggiare la violenza e costruire la nostra comunità. Siamo impegnati a cercare vie per prevenire che i giovani scelgano la violenza come un mezzo per formare ed affermare la propria identità. Siamo impegnati a sfidare la guerra e le strutture ingiuste che consentano alle ideologie violente di fiorire.”[10]

Anche il movimento per la pace italiano deve assolutamente trovare un’unità per fronteggiare questa sfida, che è culturale e sociale prima ancora che politica.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

NOTE——————————————–

[1]  http://www.la-croix.com/Actualite/France/Vous-n-aurez-pas-ma-haine-le-temoignage-d-Antoine-Leiris-2015-11-17-1381560– trad. mia

[2] http://www.azionenonviolenta.it/la-guerra-nonviolenza-o-barbarie/

[3]  ibidem

[4] P. Pugliese, La strategia della violenza ha fallito. Ora intelligenza contro stupidità, http://blog.vita.it/disarmato/2015/11/15/la-strategia-della-violenza-ha-fallito-ora-intelligenza-contro-stupidita/

[5] Monde sans Guerres et sans Violence (équipe de coordination nationale), La violence est le probleme, jamais la solution, https://www.pressenza.com/fr/2015/11/la-violence-est-le-probleme-jamais-la-solution/- trad.mia

[6] Cfr. “Terrorisme” , http://www.irnc.org/NonViolence/Dictionnaire/Items/5.htm -Trad. mia

[7] Erin Niemela, “Before the Next ISIS, We Need Nonviolent Counterterrorism Strategies”, Peace Worker , Salem (Ore.) July 2014, Trad. mia – http://peaceworker.org/2014/07/before-the-next-isis-we-need-nonviolent-counterterrorism-strategies/?utm_source=July+18%2C+2014+PeaceWorker+Articles&utm_campaign=This+Week%27s+PeaceWorker+Articles&utm_medium=email

[8] Ermete Ferraro, “La colomba verde e il califfo nero”, Ermete’s Peacebook, Aprile 2014, https://ermeteferraro.wordpress.com/2015/04/02/la-colomba-verde-e-il-califfo-nero/

[9] Derek Flood, “ Is There a Nonviolent Response to ISIS ? “, Huffington Post , 08.12.2014, trad. mia –  http://www.huffingtonpost.com/derek-flood/is-there-a-nonviolent-isis_b_5670512.html – Un altro ottimo contributo alla ricerca di una strategia nonviolenta contro il terrorismo è l’articolo di George Lakey, “8 Ways to Defend against Terror Nonviolently”, Waging Nonviolence, 22.1.2015, http://wagingnonviolence.org/feature/8-ways-defend-terror-nonviolently/ 

[10] IFOR, “IFOR Responds to Paris Attack”, Statement, Nov. 18, 2015, trad. mia – http://www.ifor.org/movement-news-and-updates/

La colomba verde e il califfo nero

Resistenza a terrorismo ed integralismo islamista: una prospettiva nonviolenta ed ecopacifista   di Ermete Ferraro (*)

 dove&calif

1 – Guerra all’ISIS: la mistificazione degli interventisti

E’ molto difficile che in Italia si parli di nonviolenza e, specificamente, di difesa nonviolenta come forma di resistenza pacifica e non armata. E’ ancora più raro che si affronti apertamente questo argomento in un contesto che si riferisca all’escalation del terrorismo islamista ed ai preoccupanti focolai di guerra di cui abbiamo sentiamo parlare quasi ogni giorno, ma sempre secondo i consueti schemi mentali di una cultura che conosce poco e male l’alternativa nonviolenta e per la quale l’unica difesa possibile resta comunque quella militare.

Si accenna talvolta anche ad una terza via, quella classicamente definita ‘diplomatica’, che vede impegnate le cancellerie dei vari stati coinvolti in una trattativa che punta ad una mediazione accettabile tra le parti in conflitto,  così come non manca chi ipotizza piuttosto un uso maggiore dei cosiddetti servizi, cioè del controspionaggio, in funzione sia di collegamento ufficioso e supporto alla diplomazia, sia di vere e proprie azioni di ‘intelligence’.

Quel che è certo è che il bombardamento mediatico ci fa sentire sotto assedio, sempre più direttamente coinvolti in conflitti che, ormai da un po’, sembrerebbero sfuggire ad ogni tradizionale logica geo-politica, proprio perché al terrorismo islamista si è ormai sovrapposta una strategia bellica  vera e propria, e per di più a distanza ravvicinata dalle nostre coste.

Questo, ovviamente, offre sempre più frequenti occasioni di proclami bellicisti ad una destra che va caratterizzandosi in senso nazionalista e xenofobo, ma anche di una sedicente sinistra decisionista ed inguaribilmente filo atlantica.

Da parte sua, il movimento pacifista italiano, cronicamente indebolito dalla frammentazione dei gruppi e dall’incapacità di uscire dalla pura e semplice testimonianza, stenta a dare una risposta a questa tendenza all’utilizzo dei media per diffondere paura e luoghi comuni, facendo il gioco dei terroristi e disseminando la sensazione della quasi ineluttabilità d’un coinvolgimento del nostro Paese in azioni militari, in risposta alla minaccia islamista.

Certo, dopo che già ci siamo cascati in altre circostanze, e soprattutto dopo gli evidenti risultati negativi di quelle esperienze, perfino alla stampa ed alle emittenti radio-televisive riesce ormai difficile parlare di azioni di “peacekeeping”. L’ipocrisia della ‘neolingua’ dei politici non riesce più a nascondere, ad esempio, che un intervento armato in Libia – come quello ventilato recentemente – sarebbe fatalmente un’azione di guerra.

Il fatto che colpisce maggiormente è che questa demistificazione delle finte azioni di pace, in passato definite perfino ‘umanitarie’ – viene proprio da chi sa esattamente di che cosa si sta parlando, cioè dai militari. Non è un caso, infatti, che un ex-Capo di stato maggiore della Difesa, il gen. Mario Arpino, si sia associato ad alcuni suoi autorevoli omologhi statunitensi nel criticare  la sconcertante approssimazione dei politici nel trattare di questi problemi.

 «Sulla scottante questione libica prevale la tesi per cui è meglio evitare interventi militari esterni, altrimenti la situazione potrebbe diventare ingestibile. Eppure certi Paesi come la Francia mandano verso quei territori le loro portaerei dando l’impressione di volersi muovere.
“Sì, ecco, la Francia. Un’altra minaccia secondo me è proprio la Francia. Ogni volta che si muove fa disastri. […] Dietro la foglia di fico del voler proteggere qualcosa o qualcuno, probabilmente si cela sempre l’intento di fare i fatti propri. Ci hanno trascinato in un conflitto destabilizzando il padrone del momento, Mu’ammar Gheddaffi, dipinto come poco democratico, ma stiamo scoprendo quanto sia inutile cercare padroni democratici in Medio Oriente. Anzi, forse è impossibile trovarne. Il rischio è continuare a dare in pasto all’Isis e ai suoi simili argomenti e motivi per crescere e prosperare, di fornire ciccia al cane”.

Si parla in compenso di soluzione politica, cosa può significare in concreto?

[…] Soluzione politica significa qualunque cosa che non sia guerra. Bisogna allora stabilire se ci sono le condizioni per far colloquiare almeno i principali responsabili. Ed è ciò che sta facendo, tutto sommato, l’Onu in particolare con l’inviato speciale Bernardino Leon per la creazione di un governo di unità nazionale.» [i]

D’altra parte, se solo non ci si fa prendere la mano dalla propaganda interventista e si ritorna col pensiero ai miserandi risultati delle precedenti ‘spedizioni’ militari italiane, non si può fare a meno di constatare  che, anche prescindendo dal tragico bilancio dei morti, dei feriti e dei danni provocati da quelle azioni armate, non si può assolutamente affermare che esse siano servite ad arginare il pericolo islamista o a ridimensionarne l’impatto sull’Europa.

Spiega Loretta Napoleoni, economista ed esperta di terrorismo internazionale:

«L’Occidente dovrebbe smetterla di agire d’impulso e usare di più la diplomazia. Abbiamo fatto la guerra in Iraq nel 2003 e oggi ci ritroviamo i jihadisti dieci volte più forti. L’unica strada è quella indicata dal Papa: dialogo e azione sotto traccia per capire gli obiettivi dello stato islamico […] »Abbiamo  già visto che la guerra ha prodotto destabilizzazione sia in Iraq che in Libia a meno che non sia un intervento militare di lunghissimo periodo e questo significa tornare a una forma di neo colonizzazione  e questo è impossibile dal punto di vista politico e inaccettabile dalla popolazione occidentale. L’unica strada è quella prospettata da papa Francesco qualche mese fa: dialogo e diplomazia». [ii]

Il guaio è che dire la verità, mostrare quanto è nudo il re della guerra, è considerata una possibilità da scartare, sia per non disturbare i balbettii spesso contraddittori dei politici, sia perché si teme di passare per disfattisti, per filo-islamici o semplicemente per inguaribili ingenui.

Eppure, come dichiara in un’intervista un ex generale della NATO come Fabio Mini, è innegabile che un coinvolgimento diretto dell’Italia in uno scenario come quello libico (di per sé evocante  gli spettri del colonialismo) ci costerebbe davvero molto caro, cioè circa 50 morti alla settimana…

« È una guerra e non una missione di pace» precisa ancora Mini. Una guerra per cui servirebbero «come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone». «Gli interventi aerei servono a garantire le basi» è la strategia, «e non a colpire in maniera indiscriminata, seguendo quanto sta facendo l’Egitto, perché in quel caso, in territori dove non tutti ci sono ostili hai solo la certezza di farti odiare da tutti. Perché se a uno che non ti sta combattendo uccidi un famigliare, anche per sbaglio, quello dal giorno dopo sarà un tuo nemico».[iii]

Una guerra, dunque, e per di più sanguinosa, destinata a farci odiare da tutti e senza speranza di risolvere nulla. Ma allora perché non tentare strade diverse, alternative alle solite carneficine spacciate per operazioni di ‘polizia internazionale’ o, peggio ancora, per ‘missioni di pace’?

2 – Fallimento delle soluzioni armate contro terrorismo e integralismo 

Il gioco è sempre lo stesso, mistificatorio come la soluzione bellica che propugna. Basta  colpevolizzare chi è contro  gli interventi militari sbandierando il solito argomento della sicurezza nazionale minacciata. Eppure basterebbe replicare che, finora, l’unico risultato delle prodezze  belliche francesi, inglesi e statunitensi è stato l’innegabile rafforzamento dei movimenti islamisti e la loro conversione dalla strategia terrorista ad una aperta sfida armata ad un generico Occidente.

La nostra martellante propaganda anti-jihadista, da parte sua, paradossalmente è riuscita a partorire un estremismo islamico ancor più feroce e combattivo, evocando un assurdo clima da crociate, di cui hanno fatto le spese in particolar modo le minoranze cristiane dei paesi arabi.

La radicalizzazione del conflitto, però, non è stata un indesiderabile ‘effetto collaterale’ della escalation militare degli ultimi anni. E’ stata piuttosto la logica conclusione di una serie di scelte sbagliate, affrettate e miopi da parte di un sistema che, dipendente com’è dal complesso militare-industriale, alimenta nuove guerre, utilizzando anche l’arma della guerra psicologica. Alle cosiddette “psy-ops” ho già dedicato in passato un approfondimento, soffermandomi appunto sulle “armi di disinformazione di massa” cui corpi speciali delle forze armate addestrano i loro agenti, nell’intento di manipolare le menti e di ‘adattare’ la realtà alle affermazioni su di essa.

«Il guaio è che la principale vittima di questi corpi militari scelti è proprio quella “verità” di cui essi vorrebbero farsi scudo ma che, per essere tale, non può né deve essere sottoposta ad un trattamento finalizzato a persuadere la gente, a cambiare i fatti e ad influenzare le opinioni. Non pensiamo, d’altra parte, che questa specie di “psycological warfare” riguardi esclusivamente i militari statunitensi ed il Pentagono. L’Italia, infatti, non ha mai smesso di far parte di quell’Alleanza Atlantica alla quale resta tuttora vincolata in tutti i sensi, al punto che la sua stessa sovranità nazionale me risulta pesantemente limitata ed il territorio ed il mare italiani sono costantemente sottoposti al ferreo controllo della NATO.» [iv]

Non è un caso che alla violenza della guerra si associ regolarmente quella della propaganda e della manipolazione delle menti. E’ l’esatto contrario della nonviolenza, la cui caratteristica è di essere invece “la forza della verità” (il significato del gandhiano “Satyagraha”), perché  – al contrario della pace che è sempre aperta e costruttiva – la guerra si nutre di odio, diffidenza e paura.

Recentemente sono apparsi alcuni articoli, prevalentemente sui media anglosassoni, riguardanti la possibilità e fattività di una resistenza nonviolenta alla minaccia dell’integralismo islamico ed alle strategie guerrafondaie dell’ISIS. Tra le voci che si sono levate in tal senso c’è quella di Erin Niemela, direttrice della rivista Peace Voice (organo dell’Oregon Peace Institute), che si è fatta promotrice di “Strategie di controterrorismo nonviolente” nei confronti del cosiddetto “Stato Islamico”, proprio a partire dal palese fallimento di quelle militari.

«Adesso basta. Tutte le politiche d’intervento violento di controterrorismo sono completamente fallite. Stiamo seminando e raccogliendo una tragedia perpetua con questa macchina di violenza e le sole persone che ne beneficiano se ne stanno sedute su una montagna  di denaro, nell’industria del conflitto […] E’ tempo di un grande cambiamento nelle strategie di gestione dei conflitti. Possiamo finalmente iniziare ad ascoltare i tanti ricercatori e gli studi con strategie scientificamente supportate per un antiterrorismo nonviolento?» [v]

Già, perché quello che la stragrande maggioranza delle persone non sa è che l’alternativa non è affatto fra l’intervento armato ed un vile e miope disimpegno. La vera alternativa è tra la risoluzione violenta e nonviolenta dei conflitti, utilizzando nel secondo caso un comportamento che è tutt’altro che passivo, in quanto si tratta di adottare una resistenza attiva e mirata. La via nonviolenta, infatti, non solo è eticamente preferibile, ma è anche molto più efficace, come hanno mostrato con chiarezza vari studi comparativi sulle soluzioni adottate ad un secolo di conflitti.

« Erica Chenoweth e Maria Stephen, nel loro innovativo studio del 2011, intitolato “Perchè la resistenza civile funziona” , hanno rilevato che “tra il 1900 ed il 2006, le campagne di resistenza nonviolenta hanno avuto quasi il doppio delle probabilità di raggiungere un successo pieno o parziale,rispetto alle loro controparti violente ” Inoltre, delle campagne di resistenza nonviolenta di successo hanno meno probabilità di degenerare in guerra civile e più possibilità di raggiungere obiettivi democratici.» [vi]

gandhiPer oltre un secolo – come si ricava dalla ricerca delle due studiose statunitensi – le campagne di resistenza civile si sono rivelate molto più efficaci di quelle militari, coinvolgendo l’attivismo dei cittadini e rendendoli protagonisti della difesa. Tutto questo, quindi, è già capitato in Polonia, in Birmania, in Iran, nelle Filippine e nella stessa Palestina. Si tratta di casi che si aggiungono a quelli, storici, di resistenza civile in Sud Africa, in Danimarca ed anche in Italia.

Insomma, non si propone né di incrociare le braccia ed attendere lo sviluppo degli eventi, adottando una discutibile neutralità fra le parti in conflitto, né di affermare un principio esclusivamente morale, senza tener conto della sua realizzabilità ed efficacia pratica. Ciò che andrebbe perseguito è piuttosto un modello di resistenza civile, non armata e popolare, che utilizzi strategie e tecniche ispirate alla nonviolenza attiva e sia capace di coinvolgere direttamente i soggetti in causa.  Questo, ovviamente, non esclude affatto interventi esterni – ad esempio quelli d’interposizione nonviolenta e perfino di tradizionale peacekeeping  da parte dell’ONU. Soprattutto, non costituisce assolutamente uno sgravio di responsabilità, scaricando l’onere della difesa esclusivamente sui diretti interessati.

E’ infatti evidente che le cause dei conflitti attuali vanno cercate negli equilibri strategici internazionali, in un sistema saldamente radicato sul complesso militare-industriale ed in una corsa all’appropriazione delle risorse naturali, in particolare energetiche, da parte di alcune superpotenze. Ecco perché interventi militari in zone calde – come la Siria o la Libia – risultano quanto meno sospetti, se sollecitati e condotti da soggetti interessati strategicamente ed economicamente a quei territori ma, soprattutto, essi sono comunque destinati a non sortire risultati reali e stabili di pacificazione, come sottolinea una studiosa italiana.

«Le operazioni militari, comportando la minaccia all’uso della violenza, spingono le parti in conflitto a interrompere la guerra solo per paura che l’intervento armato si concretizzi[…] Di conseguenza, la cessazione delle ostilità viene raggiunta tramite l’imposizione esterna di un accodo. Una soluzione di questo tipo è temporanea in quanto non affronta le problematiche che hanno provocato il conflitto. L’intero militare esterno viene poi vissuto dalle popolazioni in lotta come un’aggressione straniera da parte di altri paesi…» [vii]

Rifiutare la logica perversa della violenza, quindi, vuol dire aprire prospettive nuove ed avviare soluzioni costruttive e più stabili.

3 – ‘Give peace a chance!’: resistenza nonviolenta ed integralismo islamico

 Recentemente, sull’Huffington post è apparso un articolo di Eli S. McCarthy, docente di studi sulla pace all’Università di Georgetown, dal titolo: “ISIS: Nonviolent Resistance?” [viii] , in cui lo studioso statunitense, come la citata Irin Niemela, parte dalla constatazione che i metodi di contrasto che s’ispirano alla nonviolenza sono statisticamente più efficaci e durevoli delle azioni di guerra, comunque si pretenda di definirla.

« Abbiamo bisogno di fornire finanziamenti e formazione per gli attori della società civile locali nella vasta gamma di metodi di resistenza nonviolenta. Gli attori della società civile locali devono decidere quali tattiche sarebbero molto probabilmente efficaci, adattarle  alla loro cultura e mettere in luce la dignità umana.. . » [ix]

McCarthy passa poi a proporre otto punti fondamentali perché si possa credibilmente avviare una strategia di resistenza civile e non armata, che ha la sua concreta attuazione in operazioni di ‘Protezione Civile Disarmata’ e di ‘peacebuilding’, ossia di ricostruzione del terreno adatto alla ricostruzione ed alla ‘riconciliazione sociale’.

« a. Diminuire le risorse umane: ciò può comprendere gli sforzi fatti localmente per incoraggiare la gente a non unirsi all’ISIS e per offrire opportunità che si venga incontro, con altri mezzi, ai loro bisogni, come: il lavoro, l’istruzione, il rispetto per la religione, l’influenza politica, la cura dei traumi, l’avventura etc.. Questo potrebbe anche comprendere la creazione di linee di comunicazione con membri dell’ISIS a vari livelli, al fine di costruire relazioni tali da indurli ad una diminuzione del loro sostegno o ad una loro uscita dall’ISIS […]

b. Ridurre le persone con competenze e conoscenze-chiave : ciò comporterebbe uno sforzo più focalizzato sul creare linee di comunicazione con persone, all’interno dell’ISIS, che possiedano competenze-chiave […]

c. Ridurre la loro capacità di sanzioni: ciò potrebbe comprendere un coinvolgimento diretto a livello locale con la polizia  o i soldati nell’ ISIS,  per incoraggiarli continuamente a danneggiare meno,  come un modo per mantenere al meglio il loro ordine. […]Questo potrebbe includere anche la creazione di gruppi di controllo di quartiere come un’alternativa che ISIS può consentire e che avrebbe gradualmente ridurre i danni alle persone nella comunità, determinando così  più spazio di manovra alla società civile per organizzarsi.

d. Ridurre la loro autorità e legittimazione : ciò potrebbe comprendere un dibattito discreto e forse riunioni di piccolo gruppi, che sollevino questioni circa la loro autorità e legittimazione […]

e. Ridurre gli intoccabili:ciò potrebbe comprendere […] per esempio, l’uso dell’Islam, l’insostenibilità della rivoluzione e del controllo violento, ed il loro trattamento nei confronti delle donne e di altre minoranze. Questo può essere fatto sia a livello locale e internazionale. […]

f. Ridurre le risorse materiali: ciò sarebbe impegnativo, ma al momento opportuno e quando la gente del posto lo decide, potrebbe includere il ritardare strategicamente un pagamento o versare solo parte del pagamento di una certa imposta / tassa per l’oppressore.[…]

g. Istituzioni alternative: al momento giusto,ciò potrebbe comprendere la creazione di comitati locali – di strada, di quartiere o di città –come fu fatto in Sud Africa per l’Apartheid […]

h. Interruzioni diffuse: questo sarebbe stato difficile ma, al momento giusto e quando la gente del posto lo decide, potrebbe comprendere l’organizzazione di rallentamenti nel lavoro per cinque minuti /un’ora /mezza giornata,  o l’organizzazione di  rallentamenti nei viaggi, come nel caso dei  veicoli per le strade, ecc.»

Come si vede, buona parte delle strategie proposte rientrano nel tradizionale repertorio della resistenza nonviolenta, codificate negli scritti di M.K. Gandhi, ma soprattutto attuate nel corso della rivoluzione nonviolenta che portò alla liberazione dell’India dal dominio coloniale inglese. Si tratta di tecniche – basate prevalentemente sulla disobbedienza civile, la non-collaborazione, il boicottaggio, ma anche sulla capacità di dar vita ad organizzazioni parallele ed alternative – che il fondatore della nonviolenza in Italia, il filosofo Aldo Capitini, racchiuse nel suo fondamentale manuale apparso nel 1967 [x].

Come sottolinea opportunamente Antonino Drago in un suo libro dedicato alla storia ed alle tecniche della Nonviolenza, non si tratta di manifestare la propria obiezione di coscienza o di dare una testimonianza morale,  bensì di determinare attraverso quelle strategie effettivi risultati, ai fini della risoluzione del conflitto.

«Per tale scopo, alla nonviolenza si chiede di saper proporre azioni che siano: 1) comprensibili in termini universali, 2) comunicabili da una persona all’altra non con un lungo processo di adattamento, ma secondo un linguaggio compartecipato collettivamente e 3) efficaci sulla struttura sociale.» [xi]

Recentemente, il quotidiano cattolico francese “la Croix” ha pubblicato un articolo di Étienne Godinot (Presidente dell’Institut de Recherche sur la Résolution Non-violente des Conflits- IRNC), in cui egli si sofferma proprio sull’esigenza di passare ad un modello civile di difesa, anche quando si tratta di fronteggiare crisi internazionali come quella attuale.

« La difesa civile nonviolenta è una politica di difesa contro ogni tentativo di destabilizzazione, di controllo e d’occupazione della nostra società, coniugando, in maniera civile preparata ed organizzata, delle azioni nonviolente collettive di non-collaborazione e di confronto con l’avversario, in modo che egli sia messo nell’incapacità di raggiungere gli obiettivi della sua aggressione : l’influenza ideologica, la dominazione politica, lo sfruttamento economico.» [xii]

Tornando a McCarthy, egli chiude il suo contributo sull’ipotesi di resistenza nonviolenta all’ISIS  dichiarando che spetta alle comunità locali scegliere come e quando sperimentare dei metodi alternativi di lotta, per una trasformazione nonviolenta dei conflitti. L’appello è anche ad evitare che la propaganda mediatica ci porti a considerare gli appartenenti all’ISIS come esseri non umani, con cui non sarebbe quindi possibile altra risposta che quella armata. Alternative valide agli scontri armati ci sono, mentre abbiamo ormai ampia esperienza dell’inutilità e distruttività delle soluzioni militari.

4 – Una  prospettiva ecopacifista per l’azione nonviolenta
ulivo girasoleIn un opuscoletto dal titolo “L’ulivo e il girasole”  ho cercato di tracciare un percorso operativo per chi è già convinto che le battaglie per la pace sono strettamente correlate a quelle in difesa dell’ambiente violato, o comunque si sia reso conto che è difficile scindere fenomeni diversi, ma che hanno quasi sempre cause e moventi comuni.  Sto parlando di quella visione ecopacifista che in Italia, purtroppo, è ancora poco diffusa, e che invece potrebbe coniugare le istanze ecologiste con quelle di chi cerca un’alternativa alla guerra. Una delle cose che ho cercato di puntualizzare in quello scritto sono i suoi principi teorici, che così sintetizzavo:

«(i) L’ecopacifismo non è la pura e semplice sommatoria di obiettivi programmatici e di azioni pratiche relative alla lotta per la difesa degli equilibri ecologici e per l’opposizione al militarismo ed alla guerra. […]; (ii) L’ecopacifismo non è una dottrina politica ma neppure una semplice strategia d’azione. Sullo sfondo della proposta ecopacifista, infatti, si delinea un ben preciso modello di convivenza e di sviluppo economico e sociale […]; (iii) Il patrimonio ideale dell’ecopacifismo racchiude e coniuga varie idee-chiave che bisogna approfondire e trasformare in azione: pace positiva, giustizia sociale, democrazia dal basso, difesa della diversità culturale e linguistica, salvaguardia della biodiversità…» [xiii]

Ebbene, se si esamina la situazione attuale dello scenario in cui opera l’ISIS, è evidente che una strategia alternativa a quella degli interventi militari deve tener conto sia degli attuali equilibri geo-politici in quella regione, sia delle cause economiche di quegli infiniti conflitti e della parallela crescita del traffico di armi. Entrambi, infatti, sono stati sempre determinati dall’arrogante pretesa di  controllare le risorse energetiche ed hanno, d’altra parte, provocato enormi e persistenti danni all’ambiente naturale oltre che alla popolazione civile ed alla loro stessa possibilità di lavoro e di sopravvivenza.  Come ribadiva un documento della Rete della Conoscenza – pubblicato lo scorso agosto sul suo sito – è necessario interrompere il circolo vizioso per cui le armi alimentano i conflitti e questi ultimi richiedono l’uso di sempre nuovi armamenti.

« Le potenze occidentali hanno gravissime responsabilità nella determinazione dell’attuale situazione in Medio Oriente. La definizione di confini coloniali (quasi mai corrispondenti a identità collettive), la formazione di classi dirigenti locali strettamente legate nella loro ascesa ai partner occidentali, politiche interventiste spregiudicate a tutela dei propri interessi geo-politici ed energetici a geometria variabile hanno per decenni pesato come macigni sulla possibile affermazione di forme di auto-governo, sull’autodeterminazione delle popolazioni e sulla convivenza pacifica fra etnie e religioni diverse.» [xiv]

Ma i problemi non sono solo quelli storici di un conflitto che si trascina da decenni. Le continue azioni di guerra in Medio Oriente – si rileva in un articolo del 25 marzo scorso che cita organismi internazionali come la Croce Rossa –  stanno anche provocando catastrofi ambientali ed umanitarie,:

« Il consumo di acqua in una regione instabile, con l’aumento della popolazione era già a livelli insostenibili in molti zone colpite da basse precipitazioni record e dalla siccità, ma le guerre hanno spinto sistemi “vicino al punto di rottura”, ha detto l’agenzia assistenziale. Militanti in Siria, Iraq e Gaza hanno usato anche l’accesso all’acqua e alla corrente elettrica come “armi tattiche o come merce di scambio”, ha dichiarato in un rapporto il CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa).[…] “Pesanti combattimenti e la pratica del bersaglio diretto hanno distrutto condutture dell’acqua e linee elettriche, privando di  questa risorsa vitale centinaia di milioni di persone, che sono a grande rischio di malattie legate all’acqua”, ha detto Robert Mardini, capo delle operazioni del CICR per il Nord Africa e il Medio Oriente[xv]

Ecco perché è praticamente impossibile scindere le considerazioni politiche da quelle ecologiche, visto che le catastrofi umanitarie corrispondono quasi sempre a quelle ecologiche, essendo frutto della stessa violenza cieca ed irresponsabile.

“La crisi idrica globale sta provocando raccolti falliti, fame, guerra e terrorismo” – sintetizza il giornalista e ricercatore Nafeez Ahmed, che così prosegue: Il mondo sta già sperimentando la scarsità d’acqua, provocata dall’uso smodato,dalla scarsa gestione del territorio e dal cambiamento climatico […]  E’ una delle cause delle guerre e del terrorismo in Medio Oriente e oltre, e se non riusciamo a rispondere agli allarmi  (che ci sono state) prima di noi, ancor maggiori carenze di cibo e di energia affliggeranno presto  gran parte del globo, alimentando fame, insicurezza e conflitti» [xvi].

Occorre quindi una grande mobilitazione del movimento ecologista internazionale anche sulle problematiche connesse al dilagare dei conflitti armati nello scenario mediorientale, per denunciare sia la grande truffa di un falso modello di sviluppo, radicato saldamente sulle fonti energetiche fossili, sia le devastanti conseguenze di una crisi ecologica globale, determinata dalla mancata risposta ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, occorre combattere la logica militarista e bellicista che sta provocando catastrofi umanitarie ma anche enormi e persistenti danni a territori già martoriati e compromessi. C’è bisogno allora d’un rinnovato impulso ad azioni comuni delle organizzazioni ambientaliste ed antimilitariste/pacifiste, perché il vero nemico da battere è la guerra, con le sue logiche distorte e le sue terribili conseguenze .

Non è certo un caso che tra gli obiettivi strategici del movimento verde internazionale c’è un ben preciso collegamento tra queste due dimensioni e che la ‘nonviolenza’ sia uno dei quattro ‘pilastri’ su cui si basano i Verdi [xvii]  che, anche a livello europeo, ribadiscono il principio del “lavorare per la pace” nel loro manifesto. [xviii]

Non dobbiamo neppure dimenticare che il complesso militare-industriale non solo è dietro i conflitti che stanno infiammando un mondo sempre più globalizzato e lottizzato – e quindi dietro le guerre, più o meno dichiarate, che stanno divampando nei vari scenari – ma è anche fonte di una diffusa militarizzazione e nuclearizzazione del territorio e dei mari, ingenerando gravi danni all’ambiente naturale, serie minacce alla biodiversità e rischi per la salute delle comunità locali.

Maxi-installazioni di potentissimi radar (come nel caso del MUOS in Sicilia); incontrollabili poligoni per esercitazioni armate in cui si usano anche proiettili con uranio impoverito, come in quello sardo di Salto di Quirra; pericolosissimi sottomarini e portaerei a propulsione nucleare che solcano indisturbate i nostri mari ed attraccano nei nostri porti; ampi terreni sottratti alle attività agricole e produttive. Sono solo alcuni dei problemi ambientali connessi non solo alle operazioni di guerra, ma anche alla crescente  militarizzazione del territorio italiano, il cui monitoraggio e controllo viene arbitrariamente sottratto alle autorità civili e sottoposto a secretazione.

A tal proposito, due ricercatrici dell’Università di Berkeley (California) hanno curato un’utilissima bibliografia delle fonti documentarie concernenti, appunto, “Guerra, Militarizzazione ed Ambiente”, nella quale si prendono in esame le varie forme d’impatto ecologico dei conflitti armati e dell’occupazione militare.  In tale documento si afferma chiaramente :

« Una vittima  degna di nota – spesso nascosta – della militarizzazione e della guerra è l’ambiente naturale. Quando ecologisti e geologi tornano a paesaggi sfregiati dai conflitti, tragedie ambientali a lungo termine iniziano ad accompagnare le tragedie umane immediate della guerra. Molto spesso le guerre sono state combattute nel contesto di un preesistente degrado ambientale o do un’intensiva estrazione di risorse naturali, portando alcuni ricercatori a indagare sulle complesse cause ambientali della guerra.» [xix]

Come nel caso delle problematiche inerenti la pace, si avverte un’estrema necessità che vengano coniugate le tre dimensioni della ricerca, dell’educazione e dell’azione anche nei confronti dei problemi ecologici derivanti dalla guerra e dal militarismo. In Italia un movimento eco pacifista deve ancora svilupparsi, ma basterebbe cominciare dal coordinamento operativo delle organizzazioni ambientaliste e pacifiste preesistenti, facendo controinformazione e stimolando la nascita o la crescita di comitati di cittadini attivi. Dare una possibilità alla pace è anche questo. [xx]

Note: —————————————————————————————————

[i]  Ignazio Dessi, Libia, il generale Arpino: Un’altra minaccia è la Francia, a volte fa disastri. Sullo sfondo c’è il petroliohttp://notizie.tiscali.it/articoli/interviste/15/02/libia-isis-generale-arpino-intervista.html

[ii]  Antonio Sanfrancesco, Napoleoni: “L’ISIS fa paura ma la guerra non serve”   > http://www.famigliacristiana.it/articolo/isis-in-libia-napoleoni-lisis-fa-paura-ma-la-guerra-non-serve.aspx

[iii]  Luca Sappino, Libia, guerra costerebbe 50 morti a settimana > http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/02/17/news/guerra-in-libia-ci-costera-50-morti-a-settimana-1.199978

[iv] Ermete Ferraro, Spy-Ops: quando la guerra si fa con le parole  > https://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/

[v]  Erin Niemela, Before the next ISIS, We Need Nonviolent Counterterrorism Strategies > http://www.peacevoice.info/2014/07/06/before-the-next-isis-we-need-nonviolent-counterterrorism-strategies/  (trad mia)

[vi]  Ibidem – La ricerca cui si fa riferimento, il cui testo è stato pubblicato solo in inglese, è: Erica Chenoweth and Maria J. Stephan, Why Civil Resistance Works – The Strategic logc of nonviolente Conflict, New York, Columbia University Press, 2012 > http://cup.columbia.edu/book/why-civil-resistance-works/9780231156820

[vii]  Giulia Zurlini Panza (a cura di), Dalla guerra alla riconciliazione, Pisa, Centro Gandhi ed., 2013, pp.44-45

[viii]  Eli McCarthy, ISIS: Nonviolent Resistance?  > http://www.huffingtonpost.com/eli-s-mccarthy/isis-nonviolent-resistanc_b_6804808.html  (trad. mia)

[ix]  Ibidem

[x] Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, ed. dell’Asino, 2009 ; il testo è difficilmente reperibile, se non nelle biblioteche. Una sintesi è pubblicata sul sito: http://www.panarchy.org/capitini/nonviolenza.html

[xi]  Antonino Drago, Storia e tecniche della nonviolenza, Napoli 2006, p.23. Vedi anche:Idem, Difesa popolare nonviolenta – Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Torino, E.G.A, 2006

[xii]  Étienne Godinot, De la résistance civile à la défense civile, in : la Croix, 12.03.2015 > http://www.la-croix.com/Articles-du-Forum/De-la-resistance-civile-a-la-defense-civile-2015-03-12-1290300

[xiii]  Ermete Ferraro, L’ulivo e il girasole, Napoli, VAS,  2014 (il manuale in formato e-book può essere scaricato su:  http://issuu.com/ermeteferraro/docs/manuale_ecopacifismo_vas_2_83d43f9735930d

[xiv]  “Iraq: altre armi non sono la risposta ai danni delle politiche occidentali” > http://www.retedellaconoscenza.it/2014/08/iraq-armi-non-sono-risposta-danni-delle-politiche-occidentali/

[xv]  Stephanie Nebehaye, War in the Middle East is pushing vital water plants ‘close to the breaking point’, Business Insider-UK > http://uk.businessinsider.com/war-in-the-middle-east-is-pushing-vital-water-plants-close-to-the-breaking-point-2015-3?r=US

[xvi]  Nafeez Ahmed, Global water crisis causing failed harvest, hunger, war and terrorism, in: The Ecologist, Mar-Apr. 2015 > http://www.theecologist.org/News/news_analysis/2803979/global_water_crisis_causing_failed_harvests_hunger_war_and_terrorism.html

[xvii]  Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Four_Pillars_of_the_Green_Party

[xviii]  Cfr. http://europeangreens.eu/content/egp-manifesto  – “Working for Peace”,  p. 29

[xix]  Marisa N. Mitchell and Linda E. Coco (eds), War, Militarization and the Environment – Bibliography B o4-8, Berkeley, Institute of International Studies, University of California, June 2004 > http://globetrotter.berkeley.edu/bwep/greengovernance/papers/Bib/B08-MitchellCoco.pdf

[xx] Cfr., a tal proposito, anche un importante testo francese: Ben Cramer, Guerre et paix et écologie – Les risques de la militarisation durable, Gap, Edit. Yves Michel, 2014 > http://lavieenvert.ek.la/guerre-et-paix-l-ecologie-ben-cramer-a112820918

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(*) Ermete Ferraro, obiettore di coscienza nonviolento, ricercatore-educatore ed attivista per la pace, è referente per l’ecopacifismo dell’associazione nazionale di protezione ambientale VAS (APS “Verdi Ambiente e Società” onlus)