Alfabeto ecopacifista (G-H-I)

G COME….GUERRA

Già nell’ottobre del 2017, l’art. 3 dello Statuto del Comune di Napoli fu integrato dal Consiglio Comunale col seguente 4° comma: «Il Comune riconosce alla Città di Napoli il ruolo di Città di Pace e Giustizia” a vocazione mediterranea e solidaristica, rispettosa dei diritti fondamentali di ciascuno, convinta che il disarmo, lo sviluppo umano e la cooperazione internazionale sono indispensabili per il rispetto dei principi della giustizia sociale e dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani: economici, sociali, civili, politici, culturali». Pertanto Napoli, oltre ad ispirarsi a valori quali libertà, uguaglianza, solidarietà (comma 1/a) ed a promuovere la “cooperazione e lo scambio tra i popoli” (comma 3), si è dichiarata ufficialmente “città di pace”, che conseguentemente (e costituzionalmente) “ripudia la guerra”, promuovendo un assetto internazionale fondato sul disarmo e la cooperazione. Come antimilitarista ed ecopacifista non posso che rallegrarmene. Il fatto è che a tali lodevoli dichiarazioni di principio non hanno fatto seguito decisioni che – nell’ovvio limite di quanto può deliberare in merito un’amministrazione comunale – aprissero la strada ad un processo di smilitarizzazione del territorio urbano e metropolitano. È dal secondo dopoguerra (paradossalmente dopo che il popolo napolitano, nel corso delle Quattro Giornate, si mostrò capace di liberarsi da solo dalle feroci repressioni e distruzioni messe in atto dai nazisti), che la nostra Città è diventata feudo dell’imperialismo statunitense e base operativa strategica del Patto Atlantico per l’Europa meridionale ed il Mediterraneo. La ‘città di Natoli’ , infatti, è stata dal 1953 un dominio extraterritoriale, autonomo ed indipendente dalle autorità locali, che risponde solo ad un ammiraglio USA, contemporaneamente Comandante in capo della U.S. Naval Forces Europe-Africa. Il vizio d’origine è tutto lì. Siamo una città in teoria pacifica, aperta e solidale, che però ha ‘ospitato’ per 60 anni a Bagnoli uno dei più importanti comandi militari dei c.d. ‘Alleati’ Essi soltanto nel 2013 hanno ‘liberato’ Bagnoli della loro ingombrante presenza guerrafondaia, ma per spostarsi di una trentina di chilometri più a nord, nella costosa mega-base di Giugliano-Lago Patria. In compenso il mega-comandante della 6^ Flotta americana continua a ‘regnare’ indisturbato e riverito sul territorio di Capodichino, dove ha tuttora sede il Comando della Marina statunitense, con competenza sugli scenari europei ed africani. Molti concittadini probabilmente non se ne rendono conto, ma nell’area metropolitana di Napoli si sono decise e ancora si decidono e coordinano le strategie belliche riguardanti il Vicino Oriente ed i paesi arabi, con conseguenze devastanti che purtroppo ben conosciamo, soprattutto quando diventano causa dell’emigrazione massiccia di disperati che non ce la fanno più a vivere in un continuo clima di precarietà e di guerra.La nostra cara Napoli ‘città di pace’ resta pertanto segnata da quest’eredità militarista e guerrafondaia, di cui però solo pochi appaiono consapevoli. La guerra ci appare lontana, racchiusa nelle foto dei giornali e nelle immagini teletrasmesse che ormai ci lasciano quasi indifferenti, sebbene scenari come la Libia, la Tunisia e la Siria non distano poi tanto dall’Italia ed infiammano ciò che gli antichi Romani chiamavano ‘Mare nostrum’, adesso costantemente pattugliato da portaerei e sottomarini, a difesa degli interessi dell’attuale Impero a stelle e strisce. Dall’aeroporto militare di Capodichino continuano a partire i micidiali caccia americani con destinazioni che hanno ben poco a che fare con la pace e la solidarietà fra i popoli. È in quella base che si coordinano le ‘azioni’ aeronavali USA e si provvede alle relative attività logistiche della Task Force 63, in occasione delle operazioni militari ed ‘umanitarie’ (sic) decise da quel Comando. Anche il ‘Joint Forces Command’ di Lago Patria non è la tranquilla e tecnologica sede organizzativa ‘alleata’ che si vorrebbe accreditare, inducendo perfino scolaresche a visitarla entusiasticamente. Loro dicono di fronteggiare le altrui ‘sfide alla sicurezza’, ma sono la prima fonte d’insicurezza e d’instabilità in quell’area.Come scrivevo un anno fa: «Il leone di san Marco – simbolo del Comando NATO del Sud Europa, ora J.F.C. Naples – ruggisce ancora…Non siamo ancora usciti del tutto dalla catastrofe della pandemia che ci si prepara una strana ‘ripresa’, fatta di finanziamenti all’industria bellica e di ‘ripartenza’ delle missioni militari italiane all’estero. La recente visita ufficiale del supremo vertice europeo della NATO al comando di Giugliano (NA), responsabile per l’area mediterranea, africana e mediorientale, sta ad indicare una preoccupante ‘effervescenza’ dell’apparato delle forze ‘alleate’ su quel fronte. Soprattutto, sottolinea quanto l’Italia – ancora una volta – sia succube delle strategie interventiste sia della NATO sia della UE, al punto da destinare una fetta ancora maggiore del proprio bilancio alle spese militari, assecondando così la pericolosa pandemia bellica in atto». (E. Ferraro, Napoli, base NATO: Tintinnar di sciabole e medaglie – 15.07.2020 > https://www.agoravox.it/Napoli-base-NATO-Tintinnar-di.html ). Certo, il nostro Statuto dice che Napoli è ‘città di pace’, eppure è di fatto il centro delle strategie nord-atlantiche ed inoltre da sempre ospita (oltre a svariate decine di caserme) i quartier-generali territoriali delle nostre Forze Armate (Comando Forze Operative Sud dell’Esercito, Comando Marittimo Sud della Marina Militare e Comando Scuole A.M. della 3^ Regione Aerea dell’Aeronautica Militare). La nostra esemplare ‘città di pace’ si era perfino candidata ad ospitare a Pizzofalcone la futura Scuola Militare Europea, ma quest’assurda operazione – svelata e denunciata dagli antimilitaristi napolitani – sembra fortunatamente accantonata. ‘Guerra’, insomma, è una parola che cercando in ogni modo di evitare, ricorrendo ad ipocriti eufemismi come ‘missioni di pace’ o ‘difesa della sicurezza’. Eppure il vecchio, cinico, motto latino ‘Si vis pacem para bellum’ sembrerebbe quanto mai attuale e viene ancora tirato in ballo per giustificare la follia bellica, che produce non solo insopportabili stragi di esseri umani, ma anche devastazioni ambientali di cui assai poco si parla.Per questo il mio alfabetiere ecopacifista non può tacere sul concreto pericolo di assuefazione ad un clima di guerra permanente, im virus letale che inquina ed infetta la politica italiana e ci rende complici passivi. La guerra, invece, può essere fermata e, anche a livello locale, molto ancora possiamo fare per opporci alla militarizzazione del territorio, dell’economia, della società civile e perfino della scuola. (*) Vedi: Antimilitaristi Campani, Fermare la guerra, 2021 > scarica da: https://mega.nz/file/iQwEQSBI… ).

H COME…HOMELESS

Ho provato a trovare vocaboli italiani per il mio alfabetiere ecopacifista inizianti con la lettera H, ma non è facile. Poi mi sono ricordato che, nella nostra lingua (fin troppo proclive all’importazione di parole straniere…) l’acca è un grafema privo del corrispettivo fonema, per cui…è muta e, come tale, è affetta da un ‘handicap’ linguistico. Ciò evoca la condizione di disagio fisico e mentale vissuta ogni giorno da tanti nostri cittadini ‘H’, spesso dimenticati dalle istituzioni o tollerati come ‘problema’ da risolvere più che accolti come persone cui garantire assistenza, ma soprattutto il massimo recupero di autonomia e dignità. In quest’articolo, però, non voglio occuparmi delle mille sfumature di un ‘handicap’ che si scontra quotidianamente con i limiti (fisici, organizzativi ed economici) di una città dove già i cosiddetti ‘normali’ talvolta stentano a far valere i propri diritti di cittadinanza. L’acca di cui parlerò, invece, è l’iniziale di coloro che con un ipocrita anglicismo oggi si usa chiamare ‘homeless’, evitando pudicamente di definirli ‘barboni’, ‘senzatetto’ o, peggio ancora, ‘vagabondi’

Secondo i dati forniti da un articolo: «Nella città di Napoli vivono circa duemila senzatetto: persone che vivono per strada, sotto i portici della Galleria Principe, nella Galleria Umberto, intorno alla Stazione centrale, sul ciglio dei negozi chiusi e ovunque ci sia un minimo di riparo. In città esistono tre centri di accoglienza che a fatica coprono circa 350 posti letto, oltre che numerose persone ed associazioni che attraverso il volontariato sono attive in questo ambito. Da anni si chiede al Comune di avviare politiche concrete, che consentano alle persone senza tetto condizioni di vita dignitose: un tetto, un letto, un pasto caldo, le cure mediche necessarie, oltre che spazi adeguati, per garantire la loro igiene e socialità. Una questione che attende ancora risposte, oggi quanto mai urgenti». (Nives Monda, “Senza fissa dimora”, Critica Urbana n.12, 19.05.2020 > https://criticaurbana.com/senza-fissa-dimora ).

Vere e proprie legioni di migliaia d’invisibili si aggirano per tutte le grandi città, in Italia come negli altri Paesi, ma nella capitale del nostro Sud il problema è quanto mai serio ed irrisolto. A fronte di 2000 ‘senza fissa dimora’ , infatti, l’Amministrazione comunale riesce ad assicurare solo 350 posti letto nei dormitori pubblici, 22 volontari del Servizio Civile Nazionale (progetto ‘Strada facendo 2’) e 3 unità mobili ‘di strada’ per altrettante municipalità, limitandosi a ‘mappare’ e coordinare le risorse socio-assistenziali e sanitarie offerte sul territorio cittadino da una sessantina di organizzazioni parrocchiali, fondazioni ed associazioni (vedi: https://criticaurbana.com/senza-fissa-dimora).  Decisamente troppo poco per la terza città d’Italia, soprattutto se si fa il confronto con altri grandi centri come Milano, con i suoi 1.010 posti letto (https://www.comune.milano.it/-/politiche-sociali.-il-comune-stanzia-5-3-milioni-per-i-servizi-dedicati-ai-senza-dimora ) o con la miriade di servizi volontari offerti nella capitale.

In Campania – secondo i dati ISTAT 2011 – le organizzazioni che si occupavano dei senzatetto erano quasi per l’85% private (il 15% con finanziamenti pubblici) e solo per  il restante 15% di natura pubblica (https://www.polis.lombardia.it/wps/wcm/connect/), e questo è già un chiaro indice di quanto le pubbliche amministrazioni investono per affrontare un problema che, ben lungi dall’essere superato, rischia di aggravarsi ulteriormente a causa della pandemia e delle sue tragiche conseguenze socio-economiche, specialmente su comunità locali già molto provate. Una città come Napoli, che s’ispira statutariamente (art. 3) a criteri di “tutela della persona umana” e di “solidarietà”, non può dunque derogare al suo dovere di occuparsi in modo più attivo e diretto degli ‘homeless’, ma prima ancora delle problematiche che conducono tragicamente a questa condizione di bisogno.

L’altrettanto doverosa disponibilità ad ospitare profughi ed immigrati non può né deve rappresentare quasi un’alternativa a questo compito istituzionale primario, che peraltro andrebbe inserito in una più generale riorganizzazione e pianificazione dei servizi sociali cittadini su scala territoriale. Uscire dall’assistenzialismo e puntare allo sviluppo comunitario resta un obiettivo fondamentale, ma non è possibile chiudere gli occhi sulla crescente emergenza (occupazionale, abitativa ed economica) che affligge una larga parte della nostra città e cui occorre dare risposte concrete ed efficaci, non saltuarie ed improvvisate.

Nella categoria degli ‘homeless’, infine, ci sono anche le comunità nomadi, i cui accampamenti non possono certamente essere classificati come ‘case’. Recentemente l’incendio del campo rom di Barra, con i suoi 300 abitanti, ha riportato sotto i riflettori la questione dell’invivibilità assoluta di questi agglomerati di baracche fatiscenti, spesso ridotti ad assurde ed inquinanti discariche urbane. Dieci anni la Caritas locale censì ben 3.000 persone nomadi ospitate (si fa per dire) in 10 accampamenti. Da fonti più recenti (2019) si parla di circa 2.000 Rom presenti a Napoli, fra cui solo 450 minori erano iscritti e frequentanti presso scuole cittadine. (https://www.napolitoday.it/cronaca/campi-rom-quanti-quali.html  ) .  Anche in questo caso, però, ad occuparsi di questa categoria di ‘senza fissa dimora’ sono state finora prevalentemente organizzazioni volontarie, religiose e sociali, ma ben poco è stato realizzato istituzionalmente dal Comune. Ecco perché nel nostro alfabeto programmatico socio-ecologista e pacifista non può mancare la dovuta attenzione agli elementi più fragili della nostra comunità cittadina, non per fare mero assistenzialismo, ma piuttosto per assicurare la tutela dei loro diritti di cittadini e di persone. Perché, se l’acca è muta, noi non possiamo essere né ciechi né sordi di fronte al loro appello. 

I COME…IDENTITÀ

In un vocabolario ecopacifista la parola ‘identità’ ha una caratterizzazione assai diversa da quella cui ci ha abituato il linguaggio politico nell’ultimo ventennio, da quando cioè la destra ha adottato il termine come eufemistico sinonimo di ‘nazionalismo’. Non a caso il concetto di ‘identità’ è stato spesso associato a quelli di ‘sovranismo’ e di ‘tradizione’, ingenerando una confusione della quale occorre liberarsi, facendo chiarezza nel merito. Parliamo infatti di un’idea che rinvia ad un contesto antropologico-culturale e psicologico più che ad un ambito ideologico-politico. Eppure – a partire dagli anni ’70 ma soprattutto negli anni ’90 – la ‘nouvelle droite’ francese, il leghismo e neofascismo italiani, il nazionalismo russo e la c.d. ‘alternative-right’ statunitense l’hanno di fatto monopolizzata, mescolando suggestioni anti-globaliste e perfino ecologiste con rigurgiti dottrinari nazionalsocialisti. ‘Identità’, conseguentemente, ha assunto una connotazione decisamente conservatrice, tradizionalista e nazionalista, tesa a ‘difendere’ i caratteri distintivi di una comunità da ogni ‘invasione’ esterna ad essa, in primo luogo sul piano etnico, religioso e politico.

Eppure si tratta d’un concetto importante, la cui complessità non può essere strumentalmente semplificata a mo’ di bandiera da sventolare ‘contro’ qualcuno o per distinguere ‘noi’ dagli ‘altri’. Basti pensare che, in latino, ‘hospes’ (ospite) ed ‘hostis’ (nemico) hanno la stessa origine etimologica, denotando solo l’estraneità, la natura di ‘forestiero’, di chi si presenta nella nostra comunità, senza peraltro implicare alcuna particolare intenzione ‘ostile’. Ma proprio contro tale apertura alla ‘ospitalità’ che si appuntano le feroci critiche dei sovranisti di ieri e di oggi, che la considerano una pericolosa minaccia all’integrità e identità di un popolo.  Qualcuno, invece, ha suggerito opportunamente d’individuare una serie di ‘indicatori identitari’ (ecologici, materiali, storici, culturali e psico-sociali), ma in chiave di apertura interculturale e proprio per evitare che si continui a parlare di ‘identità’ in modo semplicistico. (http://www.interculturatorino.it/glossary/indicatori-identitari/ ).

Nel nostro vocabolario ecopacifista, dunque, l’identità meridionale e specificamente napolitana non assume alcun carattere di contrapposizione ‘ostile’, bensì rappresenta una giusta tutela della ‘diversità culturale’ di un eccezionale patrimonio di civiltà dal rullo compressore globalista e dalla tendenza arrogante e forzosamente omologante delle ‘monoculture della mente’ di cui nel 1993 parlava Vandana Shiva. (https://shivanasa.files.wordpress.com/2010/10/vandana-shiva.pdf ). Rileggere la storia di Napoli e del suo ruolo nel meridione d’Italia con occhi non viziati dalla preponderante quanto distorta storiografia ‘unitaria’, per metterne in luce le autentiche caratteristiche, soffocate per un secolo e mezzo da un insopportabile colonialismo culturale e politico, non è quindi un’operazione conservatrice né revanscista. Si tratta semmai di un’operazione nonviolenta di ristabilimento della verità, per restituire alla nostra gente la dignità calpestata e per ristabilire l’equità cui ha diritto.

Come scrivevo a dicembre 2020, rispondendo alle ‘5 domande su Napoli’ poste da Raffaele Carotenuto a varie esponenti politici: «Come ecopacifista e meridionalista, ritengo che chi voglia delinearne il futuro non debba sottrarsi al dovere di fare i conti col deprimente passato di colonizzazione politica economica e culturale del Mezzogiorno, cui è stata condannato per un secolo e mezzo dal Nord mitteleuropeo, provocando subalternità, marginalità e perdita d’identità. Il riscatto del Sud passa anche per la rinascita della nostra città, accrescendo in chi vi abita la consapevolezza della sua storia e del ruolo che potrebbe svolgere in un’Europa meno carolingia e più mediterranea. […] Un futuro migliore per Napoli, d’altra parte, non dipende solo dal ribaltamento della perversa logica della cosiddetta ‘secessione dei ricchi’, ma implica anche una diversa visione del Paese e del suo ruolo geopolitico. Da ambientalista, intravedo nell’individuazione di ‘ecoregioni’ un’alternativa al rissoso regionalismo in atto, dando vita ad un’Italia policentrica e federativa, senza però trasferire a livello decentrato – come è già successo negli ultimi decenni – i perniciosi difetti del vecchio centralismo burocratico unitario». (https://www.ilmondodisuk.com/5-domande-per-napoli-ermete-ferraro-verdi-ambiente-e-societa-napoli-deve-recuperare-la-sua-identita-culturale-tra-lingua-letteratura-e musica/?fbclid=IwAR2oIPLumuKOHXNzs1gLCekx7_Qtxpe4oy1oE5qB0vAdhzm0VjANX4SqxfE

Sì, essere di sinistra non esclude affatto la difesa dell’identità di una città e/o di un territorio che abbia nel suo DNA caratteristiche e tipicità, non in chiave di gretta chiusura ma valorizzando la diversità come ricchezza. Lo sosteneva anche Gramsci, quando scriveva dal carcere: «La elaborazione unitaria di una coscienza collettiva domanda condizioni e iniziative molteplici […] Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e dà rifrazioni di luce diverse […] Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale». (A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, pp. 33 sgg. > https://www.marx21.it/archivio/rivista-archivio/identita-e-diversita-nel-pensiero-di-gramsci/ ). La questione meridionale d’altronde è tutt’altro che chiusa e, al contrario, incalzano nuove pulsioni egemoniche da parte di un ‘regionalismo differenziato’ a trazione leghista e non solo, che non solo non propone di ‘far parti uguali tra disuguali’ (che per don Milani sarebbe già un’ingiustizia), ma addirittura di esasperare ulteriormente le disparità socio-economiche esistenti, senza trovare argini alla sua arroganza. 

Essere ecopacifisti, insomma, non significa accettare supinamente la violenza di una mentalità neo-coloniale, bensì opporvisi decisamente con la forza della verità e degli strumenti nonviolenti. Una città come Napoli – storica capitale del Mezzogiorno – ha tutte le caratteristiche per guidare un movimento autenticamente meridionalista, che non consideri l’identità come arcigna opposizione agli ‘altri’, un muro di divisione, ma piuttosto come riconoscimento di valori comuni su cui basare uno sviluppo comunitario più ecologico, equo e solidale. Personalmente, io ho cominciato parecchi anni fa occupandomi della salvaguardia del patrimonio linguistico napolitano e della Campania, che oggi è tutelato dalla legge regionale n. 14 del 2019 (vedi: https://www.consiglio.regione.campania.it/cms/CM_PORTALE_CRC/servlet/Docs?dir=atti&file=AttiCommissione_4203.pdf ). È, fra gli altri, un terreno sul quale anche il Comune di Napoli – che statutariamente “opera nello spirito della identità storica napoletana nel contesto nazionale ed internazionale” dovrebbe impegnarsi sempre più attivamente.

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