Alfabeto ecopacifista (L-M-N)

L COME…LUNGOMARE LIBERATO

Lungomare di Napoli: come si fa a non parlarne quando si propone un programma per la Città? Qualcuno, anche recentemente, ha evocato l’icastica espressione “il mare non bagna Napoli”, mutuando il titolo della raccolta di racconti scritti nel 1953 da Anna Maria Ortese. Già, perché la città costiera affacciata sul golfo più bello del mondo nei secoli ha sempre avuto un rapporto complicato col mare, una distesa sconfinata da attraversare – se necessario – per la pesca ed il commercio – ma dalla quale sono troppo giunte spesso invasioni e minacce esterne da cui difendersi. Del resto, la trimillenaria Partenope, il cui sinuoso corpo si estende tra due aree vulcaniche ancora attive (la vesuviana e la flegrea), ha potuto svilupparsi solamente nell’angusto spazio compreso tra quello splendido mare e le colline retrostanti, generando nel tempo un’edificazione incredibilmente stratificata ed una convulsa densità abitativa. Ma del lungomare di Napoli – compreso tra il Porto e Bagnoli – solo una parte limitata risulta fruibile e balneabile. Una situazione molto simile a quella che emergeva dal rapporto 2020 di Legambiente, da cui si apprende che l’intera costa della Campania – coi suoi 140 chilometri di spiagge – è stata privatizzata addirittura al 67,7%, sottraendola alla libera fruizione di chi vi abita, resa già problematica dall’abbandono di parte della fascia costiera e/o dall’inquinamento delle sue acque in misura del 15,5%  (https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2020/08/Rapporto-Spiagge-2020.pdf).  Non dimentichiamo, infine, che lo scorso luglio l’ARPAC aveva chiesto il divieto di balneazione lungo l’intero litorale cittadino, le cui acque risultavano in vario modo inquinate, anche se ben pochi napolitani hanno rispettato l’ordinanza sindacale emanata in conseguenza. (https://www.ilriformista.it/perche-a-napoli-ce-il-divieto-di-balneazione-e-fino-a-quando-sara-in-vigore-237759/ )

Solo da alcuni anni si è cercato di valorizzare il lungomare napolitano, liberandolo da abusi edilizi, occupazioni ed altri limiti oggettivi al suo godimento, ma soprattutto dal traffico veicolare che lo ha congestionato per troppo tempo, trasformandolo in una sorta d’intasata ‘via costiera’.  Il c.d. ‘lungomare liberato’ è stata un’operazione urbanistica ed ambientale molto importante della giunta de Magistris, che ha avuto il coraggio di sottrarre quella collana di perle all’uso improprio di arteria di comunicazione ed al conseguente inquinamento atmosferico ed acustico, restituendo alla fruizione dei cittadini e dei turisti una delle più belle aree costiere del mondo.  Ora, dopo quasi 10 anni di pedonalizzazione parziale – interrotta dal forzato ripristino della percorrenza veicolare provocato dai lavori alla galleria Vittoria – si riparla di ‘liberare’ definitivamente quello splendido lungomare dalla morsa del traffico urbano. Sembra però mancare, ancora una volta, un progetto globale che non si limiti a ‘svuotare’ quell’area, ma la renda viva, rispondente alle esigenze dei cittadini più che degli esercenti commerciali e degli organizzatori di ‘eventi’. Il ‘lungomare liberato’, infatti, dovrebbe nascere da un piano di riqualificazione ambientale del suo intero perimetro, ma soprattutto dell’area della storica Villa Comunale, il cui degrado è invece sotto gli occhi di tutti. L’associazione di cui faccio parte (Verdi Ambiente e Società, ad esempio, propose già parecchi anni fa il progetto ‘Villammare’, perseguendo la sua rinaturalizzazione e qualificazione, così da integrare di nuovo il patrimonio arboreo e monumentale della Villa e dell’antica Stazione Zoologica ‘A. Dhorn’ col meraviglioso litorale che lo fronteggia. 

Ma se “il mare non bagna Napoli” non è solo per l’inquinamento delle acque costiere o anche perché qualcuno sta già pensando di ‘imprigionarlo’ ancora nella terribile morsa della circolazione automobilistica. Molto resta quindi da fare per rendere veramente fruibile quella straordinaria passeggiata, valorizzandone sia la funzione ricreativa sia quella di utilizzo misto (produttivo, turistico e commerciale), ma eliminando al massimo le chiusure perimetrali e ‘ricucendo’ la costa con l’area urbanizzata. Come giustamente scriveva in proposito uno studioso: «… si parla oggi di “Waterfront redevelopment” inteso come processo che, partendo da un insieme di “frammenti”, arrivi a un disegno organico di sviluppo del tessuto territoriale, ripensando alle funzioni dei luoghi e dei diversi ambiti, legati dalla comune matrice territoriale dell’elemento acqua» (https://www.georgofili.info/contenuti/waterfront-significato-problematiche-e-possibilit-di-sviluppo/1197 ). Uno sviluppo ecosostenibile del litorale di Napoli passa quindi anche per la qualificazione e reale fruizione delle spiagge preesistenti, ma anche per altre necessarie operazioni, quali la ‘liberazione’ del Molo S. Vincenzo dai vincoli derivanti dalla sua impropria militarizzazione, il recupero del rapporto tra spiagge e città anche nell’area di S. Giovanni a Teduccio e Vigliena (dove invece è stato progettato un pericoloso ed inquinante deposito di gas)ed altri interventi per spezzare la ‘chiusura’ ed il pesante inquinamento generato dalle attività dell’area portuale Essa, poi, deve essere assolutamente sottratta al rischio per la sicurezza e la salute dei napolitani derivante dalla permanente presenza nelle nostre acque di natanti militari a propulsione nucleare, contro cui si sono battuti per anni gli ecopacifisti di V.A.S., chiedendo trasparenza sul ‘piano di emergenza nucleare’ e stimolando la delibera comunale che, pur virtualmente, già nel 2015 ha affrontato il problema della ‘denuclearizzazione del porto di Napoli’ (https://www.napolitoday.it/politica/porto-napoli-area-denuclearizzata.html ).

Il ‘lungomare liberato’, insomma, non può ridursi allora ad una fascia sottratta al caos e riconquistata alla fruizione dei residenti e dei turisti. Il rapporto di Napoli col suo mare deve diventare ancora più sano e genuino, sia perché è possibile incrementare le c.d. ‘vie del mare’ come canale sussidiario alla viabilità su gomma e su ferro, sia perché una visione ecologista del territorio cittadino richiede un maggiore rispetto dell’ambiente marino, tutelando al tempo stesso – per usare lo slogan di una campagna nazionale di V.A.S. – i “diritti al mare e del mare”.

M COME…MANUTENZIONE

Manutenzione è una parola che stenta ad entrare nel vocabolario degli amministratori locali, troppo spesso preoccupati maggiormente di accedere ai finanziamenti pubblici (regionali, nazionali e/o europei) destinati a nuove realizzazioni ed arditi progetti. Eppure sarebbero sicuramente prioritari risorse e progettazioni che garantissero la manutenzione ordinaria e straordinaria di ciò che c’è già e che va, per l’appunto, mantenuto in efficienza, conservato e messo in sicurezza. Anche in questo secondo caso, chi amministra gli enti locali sembra prediligere comunque la ‘manutenzione d’urgenza’, rivolta al pronto intervento in occasione di eventi particolari e finalizzata ad evitare danni alle cose ed alle persone, visto che la manutenzione ‘straordinaria’ ottiene più facilmente contributi statali o comunitari.

Spesso si dice e si scrive che Napoli è una “città straordinaria”. Non sempre però questa frase va intesa come un complimento che ne premi l’eccezionalità, l’indubbia quantità e qualità delle bellezze naturali, storiche ed artistiche. Talvolta la ‘straordinarietà’ di Napoli sembra piuttosto riferirsi alla sua caratteristica di comune che spesso deve fronteggiare gravi emergenze, riuscendo però ‘miracolosamente’ a risollevarsene grazie ad interventi ‘speciali’ e fuori dall’ordinario. Ciò vale anche per gran parte delle altre grandi città, non solo italiane, dove al recupero e al ripristino (si tratti di aree verdi o di edilizia storica, di arterie stradali o di infrastrutture) in genere si preferiscono nuove realizzazioni. Ma Napoli (sarà forse anche per l’atavica devozione un po’ pagana nei confronti di santi che manifestano la loro benevolenza attraverso opportuni ‘miracoli’…) mostra in modo più spiccato questa propensione allo ‘straordinario’, che fa affluire nelle esangui casse comunali finanziamenti cospicui e, come si usa dire, ‘smuove’ anche l’economia locale.

Il guaio è che edilizia abitativa e scolastica, strade, illuminazione, fognature, rete idrica, verde pubblico ed altri elementi del patrimonio cittadino – i cosiddetti ‘beni comuni’ – come qualsiasi altra cosa di cui ci occupiamo come persone e famiglie – sono soggetti a deterioramenti, guasti ed altre problematiche, che invece esigerebbero risposte certe, pronte ed efficienti. Si sa, ci sono stati e ci sono disparità tra regioni, pesanti vincoli di bilancio, tagli ai finanziamenti, blocchi alle assunzioni di nuovo personale: tutte difficoltà oggettive e difficilmente negabili. È altrettanto innegabile, però, che ai cittadini tocca assistere impotenti al quotidiano degrado di strade e marciapiedi, impianti fognari ed aree verdi, mezzi di trasporto collettivo, edifici e perfino spazi cimiteriali. Solo nei frequenti casi di emergenza e di estrema urgenza (crolli, sprofondamenti, interruzioni della viabilità, danni irreversibili al patrimonio arboreo ecc.) scatta il ‘piano B’ della manutenzione straordinaria e dei progetti ‘speciali’ ma, direbbero gli inglesi, si tratta di interventi too little, too late, che non rassicurano gli abitanti e lasciano l’amaro in bocca per la tardiva riparazione d’un danno già subito dalla collettività.

Ogni santo giorno, quindi, abbiamo bisogno di netturbini, operai stradali e fognatori, giardinieri,vigili, custodi dei parchi pubblici e tanti altri operatori che garantiscano la praticabilità e funzionalità di ciò che una città dovrebbe offrire normalmente ai suoi abitanti e a chi si trova a visitarla. Non si tratta di figure professionali da impiegare in progetti mirati o in occasioni eccezionali. Se mancano o se sono insufficienti, dunque, è la città nel suo insieme che non funziona e che, un poco alla volta, continua a perdere pezzi del suo patrimonio, troppo spesso abbandonato all’incuria e al degrado.

Ma se ciò accade, non dimentichiamolo, la responsabilità ricade in primo luogo sulle spalle di chi finora ha smantellato in ogni modo i servizi pubblici, ha ridotto le risorse destinate agli enti locali, ha di fatto già praticato quel ‘regionalismo differenziato’ che condanna fin d’ora molti comuni a fruire di finanziamenti inadeguati e non equi, penalizzando ulteriormente chi è già stato vittima di un’ingiusta ripartizione delle risorse pubbliche. Se molte amministrazioni comunali sono costrette a pitoccare i fondi necessari ricorrendo alla valvola di sicurezza della ‘emergenza’ e della ‘straordinarietà’, la colpa è di chi – dal 2012 e con la complicità di quasi tutte le forze politiche – ha reso costituzionale l’assurdo principio di ‘pareggio in bilancio’. Con la scusa della ‘sostenibilità’ del debito pubblico, infatti, si è resa insostenibile la vita di milioni di cittadini, le cui amministrazioni ormai stentano ad assicurare i servizi pubblici essenziali e la manutenzione ordinaria del patrimonio comunale.

Normalità è stata per breve tempo – ed auspicabilmente dovrebbe tornare – la parola d’ordine di un’Amministrazione che non debba combattere ogni giorno con personale inadeguato, risorse limitate e continue emergenze. Le quali, peraltro, quasi sempre dipendono proprio della scarsa manutenzione ordinaria, si tratti di buche stradali o di alberi sofferenti, di corse ridotte delle funicolari, dei bus e della metropolitana oppure di cumuli di spazzatura non rimossa. Ecco: una città normale è già di per sé giusta, ecologica e solidale, perché a soffrire per le carenze nei servizi pubblici sono sempre e comunque le fasce più deboli della popolazione ed i quartieri più problematici.

Ecco perché manutenere una città comporta che anche chi vi abita ‘dia una mano’ in prima persona e come comunità, collaborando a renderla più vivibile, sicura ed accogliente.

N COME…NAPOLITANITÀ

N intesa come simbolo ed icona, fa subito pensare alla città di Napoli, anche se per molti la prima associazione mentale è forse quella con ‘il’ Napoli, cioè la squadra di calcio. Nell’antichità, questa denominazione, etimologicamente parlando, indicava banalmente la ‘novità’ della polis che i coloni greci di Cuma avevano costruito 2500 anni fa accanto alla vecchia Partenope, fondata tre secoli prima. I 3000 anni di storia di quella ‘nuova’ città ci sono rimasti indissolubilmente attaccati addosso e sono entrati nel nostro DNA antropologico e socio-culturale. Molto spesso, a tal proposito, si è parlato di ‘napoletanità, ma dando a questo vocabolo sfumature e tonalità molto differenti, che vanno da quella nostalgica alla sarcastica. 

La napoletanità non si insegna, né ha bisogno di essere difesa. È uno stato d’animo, una propensione genetica formatasi nei secoli, un’ampiezza di sentimenti e di spiccato senso d’accoglimento e solidarietà plasmata nell’incontro con culture e popoli diversi…” (https://www.genteditalia.org/2019/11/02/la-napoletanita/ ), ha scritto qualcuno, cogliendo uno degli aspetti più condivisibili di questa discussa categoria mentale: l’apertura alla diversità, all’integrazione e alla condivisione.  Bisogna però stare molto attenti a non trasformarla in un ‘topos’, un luogo comune buono solo ad alimentare il pervasivo folklorismo che ne ha semplificato e banalizzato le complesse caratteristiche, riducendo Napoli a cartolina.

La napolitanità da comprendere – prima ancora che da far conoscere e difendereè qualcosa di più serio, che chi si propone di amministrare la nostra città dovrebbe studiare ed approfondire, facendo meno riferimento alla tradizione alimentata da canzoni, commedie libri e film, che quasi sempre ne hanno esaltato gli aspetti farseschi e quelli noir, adattandole sul volto una maschera grottesca e manierata.

Tale riduzione della napolitanità a stereotipi, a folklorismo deteriore, è invece ciò che un suo autentico cultore dovrebbe accuratamente evitare, non per contrapporre la pesantezza dell’intellettuale alla leggerezza di chi tocca le più agevoli e immediate corde della divulgazione popolare, ma per aiutare a riflettere sulle nostre vere caratteristiche, schivando i rischi del macchiettismo cui purtroppo ci siamo abituati. Lo spazio che una ricerca storica non servile ha finalmente aperto alla riscoperta dell’importanza e centralità nei secoli di Napoli, nel più generale contesto del nostro Sud, sfatando la dominante narrazione che ne sottolineava il degrado e sottosviluppo, è una delle strade per restituire alla nostra città la dignità negata e per liberarla dal colonialismo culturale che ha subito passivamente.

Un sano meridionalismo, radicato in un grande passato da riscattare e proiettato verso un futuro possibile, scevro da inutili revanscismi e miopi particolarismi, penso che sia la strada giusta per rivalutare anche quel concetto di ‘napolitanità’ che, separato da questo percorso di liberazione socio-culturale ed economico-politica, rischierebbe probabilmente di rinvigorire la malapianta del folklorismo deteriore. Il recupero e la valorizzazione, ad esempio, del Napolitano come lingua geniale e duttile, capace di esprimere concetti e non solo di produrre battute versi o canzoni, è un altro fondamentale elemento di riscatto. Come scrivevo nel 2020: «Per non ‘perdersi’… Napoli deve recuperare la sua identità culturale, che passa anche per la valorizzazione di beni immateriali come il suo patrimonio linguistico-letterario e musicale, di cui un’altra norma da noi caldeggiata (L.R. n. 14/2019) ha prescritto la salvaguardia e promozione». (https://www.ilmondodisuk.com/5-domande-per-napoli-ermete-ferraro-verdi-ambiente-e-societa-napoli-deve-recuperare-la-sua-identita-culturale-tra-lingua-letteratura-e-musica/ ). Non bastano più le semiserie riflessioni filosofiche di chi, in “Così parlò Bellavista”, ha concentrato e reso ‘nostre’ le caratteristiche antropologiche della ‘civiltà’ dell’amore contrapponendole a quelle di chi persegue la ‘libertà’. L’antinomia comunità vs società, magistralmente approfondita da Ferdinand Tönnies nel secolo scorso, oppure quella psicoanalitica fra le modalità dell’essere e dell‘avere, approfondite negli anni ’70 da Erich Fromm, sono riferimenti molto utili ma non bastano ad illuminarci su ciò che davvero ci accomuna. Bisogna anche tener conto dell’appiattimento delle visioni e dei valori apportato dal riduzionismo culturale più recente, dal ‘pensiero unico’ neoliberista e dal rullo compressore di una realtà incentrata quasi esclusivamente sull’efficienza e dal dominio della tecnologia. 

Ma è proprio a questa insidiosa omologazione e ‘monocultura delle menti’ che occorre reagire, conconvinzione e determinazione ma anche con creatività e fantasia. Perché un’altra Napoli è possibile, pur senza rinnegare quella, spontanea e popolare, che abbiamo nel cuore e che ci rende positivamente ‘diversi’.

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