Alfabeto ecopacifista (U-V-Z)

U COME…URBANISTICA

Urbanistica, secondo la Treccani, è definibile come: «L’insieme delle misure tecniche, amministrative, economiche finalizzate al controllo e all’organizzazione dell’habitat urbano. Tre sono gli ambiti prevalenti di ricerca teorica e di applicazione pratica dell’u.: le analisi dei fenomeni urbani; la progettazione dello spazio fisico della città; la partecipazione ai processi politici e amministrativi inerenti le trasformazioni urbane». (https://www.treccani.it/enciclopedia/urbanistica/ ). Secondo il dizionario d’Italiano Hoepli, l’urbanistica sarebbe: «Tecnica e arte della costruzione della città, che ha lo scopo di creare, sviluppare, migliorare l’aggregato urbano dal punto di vista estetico e funzionale, in modo da renderlo adeguato alle esigenze degli abitanti e delle loro attività produttive». (https://dizionari.repubblica.it/Italiano/U/urbanistica.html ).

Da queste definizioni emergono due concetti fondamentali: 1) si tratta di una disciplina tecnica, ma che richiede l’analisi interdisciplinare dei fenomeni dell’urbanizzazione pere giungere alla progettazione della città sulla base delle necessità di chi vi abita; 2) nella pianificazione urbanistica si devono contemperare caratteristiche fisiche oggettive (ad esempio quelle geo-morfologiche) con quelle storiche, estetiche e funzionali, tenendo conto pertanto sia dei residenti sia delle esigenze produttive.

In realtà, è bene chiarirlo, le nostre città si sono sviluppate in larga parte al di fuori di un’effettiva progettazione degli spazi e delle funzioni, che sono state piuttosto dettate da elementi economici, culturali e socio-politici, che spesso hanno prevalso su una logica di piano. Napoli è l’esempio lampante di una meravigliosa città il cui sviluppo urbanistico, però, è stato affidato per lunghi secoli a criteri poco razionali ma molto contingenti alle sue travagliate vicende storiche. La nostra città, stretta fra il suo splendido golfo e le colline retrostanti, si è infatti espansa quasi sempre in modo disordinato, stratificandosi come una torta a più piani, in barba alla sua natura sismica e sviluppando una densità abitativa sproporzionata al territorio disponibile.

«Una caratteristica della città di Napoli è la coesistenza delle tracce di epoche e stili diversi, che si avvicendano e si mescolano -a volte su più livelli stratigrafici-, integrandosi come in un mosaico. Attorno al nucleo della città, di impianto greco-romano costituito da decumani e cardini, Napoli si è infatti sviluppata nei secoli inglobando le zone limitrofe, con l’urbanizzazione delle campagne, delle aree paludose orientali e dell’arco collinare a nord-ovest» (http://www.danpiz.net/napoli/architettura/index.htm ).

Strumento per correggere lo sviluppo ‘spontaneo’ d’una città è quello che, non a caso, si chiama ‘Piano Regolatore Generale’ (PRG), benché sia oggettivamente difficile rettificare ‘a posteriori’ storici disequilibri territoriali ed abitativi e le distorsioni funzionali che derivano. Solo negli anni ’60 a Napoli fu insediata una commissione per il PRG, che però vide la luce solo un decennio dopo, nel 1972, preceduto da due varianti, relative alla grande viabilità ed alla realizzazione di un Centro Direzionale nell’ex area industriale orientale. Non passarono neppure dieci anni che l’assetto urbanistico napolitano fu sconvolto dai noti eventi calamitosi (le scosse telluriche del 1980-81), segnando pesantemente il periodo successivo all’attuazione della legge 219/81, in nome di una ‘ricostruzione’ basata su una logica emergenziale, intensificando la tendenza ad un forzato decentramento abitativo, con conseguente ha ‘periferizzazione’ degli strati già marginali della popolazione.

La logica di un ‘piano regolatore generale’ fu poi sconvolta ulteriormente dall’impostazione politica di chi preferì operare per ‘varianti’ allo stesso PRG.

Una volta persa la visione d’insieme, solo recentemente si è cercato di recuperarela dimensione ‘metropolitana’ dell’ex capitale del Mezzogiorno, senza però centrare tutti gli obiettivi di questa visione urbanistica più ampia.

«Tuttavia le pratiche, i progetti e le innovazioni previste, non sono ancora riuscite ad esprimere il loro potenziale di innovazione dentro un quadro pianificatorio stabile, attraverso la costruzione di scenari condivisi. Eppure molte sono le occasioni su cui la città, la sua area metropolitana e la Regione hanno avuto la possibilità di misurarsi» (http://www.affariregionali.it/media/170178/dossier-citt%C3%A0-metropolitana-di-napoli.pdf – pag. 26). Tra i principali nodi da affrontare – a livello metropolitano oltre che urbano – ci sono sicuramente la rete dei trasporti su ferro, le ‘vie del mare’ ed il sistema aeroportuale; la bonifica, rigenerazione ambientale e riqualificazione sociale delle aree industriali dismesse, ad Ovest (Bagnoli) come ad Est (Vigliena – San Giovanni a T. in particolare); la razionalizzazione ed efficientizzazione del ciclo dei rifiuti urbani, diminuendone la mole ed utilizzando modalità di smaltimento ecologiche;  la rivalutazione delle periferie urbane, decentrando i servizi e valorizzandone le potenzialità sociali, culturali e ricreativo-sportive.

Per voltare davvero pagina rispetto alle promesse mancate e ad impostazioni rispondenti solo ad esigenze commerciali, turistiche o produttive, insomma, la nuova amministrazione comunale dovrebbe riprendere in mano la pianificazione urbanistica in chiave più sistemica, uscendo dalla logica delle ‘varianti’ e perseguendo obiettivi di sostenibilità ambientale e socio-economica. Le Napoli che convivono dentro l’ex capitale del Sud devono riacquistare dignità ed autonomia, cambiando rotta verso una gestione politico-amministrativa più decentrata e sempre più attenta alla vivibilità, alla socialità ed all’equità. Forse l’urbanistica non basterà per affrontare questa sfida, ma sicuramente rappresenta  parte di tale processo.

V COME…VERDE

Verde, etimologicamente parlando, è forma neolatina di viridem, da virere (verdeggiare, essere vigoroso). A sua volta, tale verbo sembra riconnettersi ad un’antica radice indoeuropea (*ghvar > *var), il cui significato rinviava al concetto di ‘splendere’.  Anche gli equivalenti nelle lingue di origine germanica (green, grüne, groene, grøn…) potrebbero avere la stessa lontana origine, ma di sicuro risalgono alla radice proto-germanica *ghre, da cui derivano il verbo to grow (crescere) e sostantivi come grass (erba).  Ho fatto questa premessa linguistica per rivelare il senso originario di questo aggettivo sostantivato, anche per tentare di liberarlo dalle sovrastrutture che lo hanno incapsulato, ridotto e spesso banalizzato. Viviamo tempi più che mai caratterizzati dal fenomeno del greenwashing, mediante il quale la carica vitale, innata nel vocabolo, è stata costantemente depotenziata, travisata e ridotta a slogan privo di contenuto reale.

Per chi, come me, ha alle spalle una lunga militanza con i Verdi, questa parola evoca riflessioni progetti ed esperienze di quell’appassionante stagione di creatività e d’impegno, ma anche di continuo confronto con altri soggetti dell’arcipelago ecologista e di quello pacifista, nel quale avevo iniziato a muovere i primi passi. Per me, ovviamente, ‘verde’ non è un aggettivo qualunque. Il suo uso improprio, strumentale e talvolta provocatorio mi suscita reazioni allergiche anche oggi, quando ormai ho messo da parte, per svariati motivi, quella precedente stagione ed ho scelto d’impegnarmi in e con un’altra formazione politica. Il fatto è che la politica non può ridursi né a mere ideologie (peraltro sempre più vaghe e sfumate) né tanto meno alla scelta di un determinato ‘colore’, come se si trattasse di un abito da indossare. Io continuo a ritenermi tuttora un ‘verde’ non per la bandiera sotto la quale porto avanti le mie lotte, ma perché continuo a credere fermamente in un’alternativa che coniughi l’ecologismo con l’impegno per la giustizia sociale e con la nonviolenza attiva.

A livello globale, infatti, i Verdi hanno inserito nel loro statuto il riferimento a sei ‘pilastri’ cui dovrebbero sempre ispirarsi (https://globalgreens.org/wp-content/uploads/2021/06/GlobalGreens_Charter_2017.pdf). Si tratta d’importanti principi fondativi (saggezza ecologica, giustizia sociale, democrazia partecipativa, nonviolenza, sostenibilità e rispetto per la diversità) che possono ovviamente essere declinati in modi differenti a livello nazionale, ma che comunque dovrebbero trovare spazio nelle politiche ‘verdi’. Purtroppo – pur rilevando i successi in paesi come la Francia, la Germania e qualche altro paese del nord e dell’est europeo – il progetto di questi partiti sembra soffrire o di una endemica debolezza (il caso dell’Italia è abbastanza evidente) o, viceversa, di una degenerazione tatticista dovuta ai propri successi, e quindi al ruolo di ‘ago della bilancia’ nei rispettivi parlamenti. Sta di fatto, insomma, che la ricorrente tendenza ad usare l’aggettivo ‘verde’ come un comodo passepartout politico – mistificando un progetto politico alternativo e riducendolo a frettolosa e superficiale verniciatura pseudo-ambientalista di contenuti del tutto estranei se non opposti – ne ha ulteriormente banalizzato e volgarizzato il significato originale.

Sentiamo continuamente parlare di politiche ‘verdi’ ed un’altra frequente espressione fa riferimento ad una sedicente‘transizione ecologica’, spacciando meri interventi di ammodernamento tecnologico o provvedimenti di parziale riconversione energetica come un’autentica svolta ecologista. Ma purtroppo il modello di sviluppo perseguito resta sempre lo stesso: antropocentrico, predatorio, capitalista, basato sullo sfruttamento delle risorse naturali e di quelle umane, intimamente violento ed iniquo, e proprio per questo garantito da un complesso militar-industriale sempre più agguerrito. Di fronte a tale stravolgimento neo-linguistico della realtà, ritengo più che mai necessario prendere le distanze sia dal finto ecologismo governativo, sia da un certo ambientalismo annacquato ed ambiguo.

Essere verde rischia di diventare il nuovo brand per piazzare il solito vecchio prodotto di una società dove tutto è diventato merce ed i beni naturali continuano ad essere controllati, detenuti e sfruttati dai soliti noti. Anche a livello di amministrazioni comunali, credo che bisognerebbe stare attenti a non inflazionare un’espressione che andrebbe declinata nel modo giusto e senza giochi di parole. Ogni comune, ad esempio, ha a disposizione un più o meno grande patrimonio di ‘verde’ pubblico nel senso letterale (parchi e giardini, alberature urbane etc.), che va considerato una preziosa risorsa, non un fastidioso problema in più da risolvere. La tentazione di affidare questo patrimonio a terzi (siano imprese private o enti del terzo settore) è recentemente diventata evidente, spingendo molte amministrazioni a delegare ad altri funzioni che le sono proprie, spesso senza una precisa normativa-quadro di riferimento ed adeguate linee-guida di natura scientifica.

Bisogna dunque contrastare questa diffusa tendenza, che accredita fra l’altro come ‘verdi’ soggetti privati che perseguono ben altre finalità, relegando la programmazione ambientale e paesaggistica comunale all’ultimo posto di quella pianificazione urbanistica di cui ho ultimamente parlato. Bisogna smetterla di definire ‘green’ o ‘smart’, inoltre, progetti ed iniziative che non hanno nulla di verde né di particolarmente intelligente e brillante, ma che usano questi termini – talvolta cinicamente – come specchietti per le allodole. Bisogna restituire il suo significato ad un progetto autenticamente ‘verde’, che non riguarda affatto solo chi non ha altri problemi materiali e si può permettere di prendersi cura delle sorti dell’ambiente. E questo per il semplice fatto che l’ambiente non è banalmente il nostro contenitore naturale, ma la nostra ‘casa comune’, qualcosa di cui facciamo parte e che condizioniamo con le nostre scelte, personali collettive ed esplicitamente politiche. Non si tratta soltanto di contrastare il riscaldamento globale incalzante, di difendere specie animali in via di estinzione o di proteggere la preziosa ed indispensabile biodiversità vegetale. Anche la difesa del futuro dei nostri figli è molto importante, ma non può essere l’unico movente.

Dobbiamo far pace con l’ambiente e con gli altri esseri umani, cambiando radicalmente stili di vita e modello di sviluppo. Forse non saranno scelte molto popolari, ma ormai non possiamo più far finta di niente di fronte a guerre e devastazioni ambientali che hanno la stessa origine e che, proprio per questo motivo, vanno contrastate insieme ed in una complessiva ottica ecopacifista. (Vedi: Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Torino, Ed. Gruppo Abele).

Z COME…ZOOLOGIA

Z: sebbene ci siano 546 parole italiane inizianti con quest’ultima lettera, non è stato facile individuare il termine giusto per concludere questa mia carrellata alfabetica sui temi inerenti ad una visione ecopacifista della politica cittadina. Alla fine ho optato per ‘zoologia’, anche se la definizione della parola ci conduce più che altro alla relativa disciplina scientifica: ”…ramo delle scienze biologiche che studia la vita del mondo animale, in tutte le sue manifestazioni. Si divide in varie sezioni. La sistematica zoologica studia gli animali sotto l’aspetto descrittivo, e li classifica, per quanto possibile, secondo le loro affinità filogenetiche…” (https://www.treccani.it/enciclopedia/zoologia/ ). Io però vorrei restituire al suffisso ‘logìa’ il suo senso originario che, prima di riguardare lo studio sistematico su qualcosa, implica una riflessione su quel tema, un’attenzione verso quell’oggetto. Lo studio del complesso ed affascinante mondo animale, infatti, non avrebbe avuto origine se non ci fosse stato da parte dell’uomo un interesse (nel suo duplice significato) nei suoi confronti, ma forse anche il peccato originale della scarsa consapevolezza di farne parte integrante.

Ovviamente nelle scuole s’insegna che l’uomo appartiene al ‘regno animale’, ma è innegabile che millenni di visione antropocentrica del mondo – anche a causa delle tradizioni religiose che purtroppo l’hanno avallata – abbiano finito col separarci da esso, collocandoci in una posizione estranea e dominante nei suoi confronti. Per gli esseri umani, infatti, gli animali sono stati prima un pericolo da cui difendersi, poi una riserva di cibo di cui nutrirsi, da alcuni secoli oggetto di studio e ricerca e, più recentemente e solo in certi casi particolari, dei ‘compagni’ con cui condividere le loro esistenze. Eppure quella prima, ancestrale, visione non si è mai del tutto spenta, come testimoniano i tanti recenti episodi di diffidenza o vera e propria paura nei riguardi degli animali (orsi, cinghiali, lupi ecc.) che da un po’ violano i confini del territorio che consideriamo ‘nostro’, quasi sempre a causa dei guasti ambientali che gli umani hanno provocato in quello che dovrebbe essere il ‘loro’.

Il secondo aspetto, che vede gli animali solo come prede da catturare a scopi alimentari o comunque utilitaristici (caccia, allevamento ed altre forme di sfruttamento che ne fanno una ‘risorsa’ da cui ricavare il massimo profitto possibile), non è mai stato superato dall’evoluzione umana. Al contrario, quello che in epoche lontane poteva essere considerato utilizzo degli animali per la sopravvivenza umana, ha perso quasi del tutto quella caratteristica per diventare uno sfruttamento sempre maggiore, violento ed irresponsabile d’una componente biologica del Pianeta che non può essere ridotta a cibo, pellicce o materiali da utilizzare massivamente, senza alterare gli equilibri ecologici e distruggere la biodiversità. Inquinamento ambientale, allevamenti intensivi, pesca industriale, eliminazione di specie zoologiche per scopi ‘ricreativi’ o per assurde tradizioni che ne valorizzano solo alcune parti, rappresentano quindi veri e propri atti di ecocidio da parte dell’uomo, oltre a turbare la coscienza etica e religiosa di tanti che continuano a credere nella ‘fratellanza’ tra noi e gli altri animali e nella difesa della ‘integrità’ del Creato.

L’animalismo è definito come “l’atteggiamento e comportamento di chi, per amore verso gli animali, interviene attivamente in loro difesa contro maltrattamenti e in genere comportamenti che procurino loro sofferenze e ne limitino la libertà (per es., la caccia, la vivisezione, l’uccisione per ricavarne la pelliccia, l’impiego nei circhi, ecc.)” (https://www.treccani.it/vocabolario/animalismo/ ). Per fortuna l’animalismo sta diventando sempre più diffuso ed è molto attivo su vari fronti, ma resta innegabile che lo stesso movimento ambientalista stenta tuttora a considerare questa problematica del tutto inerente alle sue finalità. L’animalismo in senso stretto e ideologico, d’altronde, va comunque distinto dalla semplice salvaguardia delle specie animali nel contesto del loro ecosistema, dettata peraltro da normative internazionali e nazionali ben precise, ma anche da un generico rispetto o affezione per il mondo animale, che costituisce una degenerazione ‘sentimentale’ del rapporto tra l’uomo ed alcuni suoi ‘compagni’ animali. La crescita della consapevolezza dell’enorme impatto dello sfruttamento intensivo degli animali sulle emissioni di gas climalteranti e sulle sue allarmanti conseguenze, inoltre, sembra aver finalmente spostato l’obiettivo dalle battaglie di natura puramente etica a quelle specificamente ecologiche.

«Le emissioni di gas serra degli allevamenti intensivi rappresentano il 17% delle emissioni totali dell’Ue, più di quelle di tutte le automobili e i furgoni in circolazione messi insieme. È quanto emerge dalla nostra nuova analisi […] che evidenzia anche come le emissioni annuali degli allevamenti siano aumentate del 6% tra il 2007 e il 2018. Tale aumento, l’equivalente di 39 milioni di tonnellate di CO2, equivale ad aggiungere 8,4 milioni di auto sulle strade europee» (https://www.greenpeace.org/italy/storia/12423/gli-allevamenti-intensivi-in-ue-inquinano-piu-delle-automobili-la-nostra-analisi/ ). A livello globale, ciò che negli USA continuano assurdamente a chiamare “agricoltura animale” rappresenta una delle più devastanti cause di alterazione degli ecosistemi. Oltre ad essere il movente di gran parte del processo di deforestazione del Pianeta, infatti, secondo un’autorevole fonte statunitense gli allevamenti intensivi producono: il 44% delle emissioni di metano, il 55% dell’erosione dei terreni, il 60% dell’inquinamento da ossidi di azoto (e di zolfo) ed il 70% dell’impronta mondiale di fosforo connesso all’alimentazione e circa 1/3 delle cause di perdita di biodiversità. (https://climatenexus.org/climate-issues/food/animal-agricultures-impact-on-climate-change/ ).

Sia la zoofobia sia l’atteggiamento predatorio dell’uomo sugli animali ha comunque un movente culturale, strettamente connesso ad una concezione antropocentrica dura a morire, ma anche a visioni del mondo che ci pongono in cima alla piramide della vita, e quindi in una posizione altezzosamente dominante «…l’animalismo promuove il superamento del cosiddetto specismo, ovvero della concezione secondo la quale la specie umana è superiore a livello ontologico e morale rispetto alle altri specie animali. […] “specismo” è un neologismo che intenderebbe richiamare in altro contesto il significato di termini come “razzismo” o “sessismo”: come questi ultimi significano la discriminazione sulla base della razza o del sesso, fondata sulla presunta superiorità di alcune razze o di un sesso sull’altro»  (https://www.provitaefamiglia.it/blog/animalismo-e-antispecismo-cosa-sono#sottotitolo1 ).

Anche nei programmi per le amministrazioni comunali, dunque, non dimentichiamo di ribadire che la difesa dei diritti degli animali non umani va sempre garantita, e non solo a parole. Non basta nominare una figura di ‘garante’ e non è sufficiente riservare nelle città qualche esiguo spazio dedicato ai nostri amici a quattro zampe. Va superata la contraddittoria compiacenza dei comuni verso circhi e giardini zoologici; bisogna vietare fiere e manifestazioni che utilizzino ancora animali vivi a scopi ‘ricreativi’; è indispensabile modificare i menu delle mense scolastiche, introducendo un’alimentazione più sana e sempre meno animale; si devono intensificare i progetti di tutela ambientale nei confronti dei volatili migratori e di tante specie animali ancora presenti in boschi, parchi ed aree verdi urbane; occorre incentivare e proteggere le colonie feline e offrire spazi adeguati per il movimento e la socializzazione dei cani. Insomma, bisogna insegnare, informare ed educare, ma anche agire coerentemente affinché i più giovani si liberino dalla tradizionale visione strumentale e predatoria verso gli animali. Se Aristotele quasi 2400 anni fa parlava già di “uomo e gli altri animali” (άνθρωπος και άλλα ζώα), dovremmo quindi chiederci perché abbiamo smarrito quella saggezza antica e come possiamo recuperarla.

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