“Zitti e buoni”…?

Tra pochi giorni compio 69 anni. Il Festival di Sanremo è più vecchio di me, ma non mi sembra che si sia comportato con la dignità che si addice alla sua età. Troppa smania di giovanilismo, troppo fricchettismo fuori tempo, troppo esibizionismo vacuo e finto-trasgressivo, che nascondeva la noia di un cliché molto convenzionale. Ebbene, la canzone vincitrice – cantata dai Måneskin – s’intitola: “Zitti e buoni”. Evito osservazioni su testo e musica dell’inno ribellistico di questi estrosi rocchettari dal nome innocente (“Chiaro di luna” in danese), perché non è materia mia e non amo discettare di cose di cui ho relativa competenza mentre – per citarli – “Parla la gente purtroppo /Parla non sa di che cosa parla”.  

Mi ha colpito invece il titolo della loro canzone che, forse senza volerlo, esprime sinteticamente la nostra penosa condizione attuale. “Vi conviene stare zitti e buoni”, ci hanno ammonito quegli eterei ed un po’ isterici ragazzi/e dallo sbrilluccicante palco sanremese, condensando in questa frase una realtà difficilmente negabile, in tempi di politica al tempo del Covid. Dopo un anno di emergenza pandemica siamo giunti ad una fase molto critica non solo per la salute pubblica, ma anche per la vita democratica. Essa, infatti, è stata messa duramente alla prova da divieti, limitazioni, decisionismi, eccessi tecnocratici ed enfasi discutibili su gestioni commissariali e think-tanks scientifici. Le dinamiche democratiche del confronto, dell’informazione libera, del controllo e della rivendicazione sono state di fatto sostituite da una monotona e torrenziale comunicazione unidirezionale, dall’alto verso il basso, che sta spegnendo a poco alla volta ogni dialettica, riducendo gli spazi di opposizione grazie ad un sospetto unanimismo a sostegno del ‘governissimo’ Draghi. 

E così “zitti e buoni” ci tocca restare, perché l’emergenza ce lo impone e voci fuori dal coro danno fastidio. A quanto pare, però, non basta dover rinunciare ad incontri, dibattiti e manifestazioni pubbliche per motivi di sicurezza sanitaria. Non basta dover assistere senza poter fare nulla alla mutazione genetica del lavoro e della scuola, la cui ‘digitalizzazione’ e svolgimento ‘a distanza’ stanno stravolgendo la loro natura in senso sempre più efficientistico, tecnocratico e produttivistico. Non basta che la socialità sia stata mortificata da modalità alternative sempre più virtuali ma meno umane. Non basta dover verificare l’ingerenza ingombrante delle forze armate e del complesso militare-industriale in ogni aspetto della vita civile, dall’ordine pubblico alla sanità, dalla produzione alla scuola.

Ma no che non basta. Bisogna stare “zitti e buoni” e perfino far finta di ridere e divertirsi, magari immergendosi nella scatola vuota ma rutilante del festival. Per citare uno Jannacci del lontano ’68: “E sempre allegri bisogna stare /Che il nostro piangere fa male al re / Fa male al ricco e al cardinale / Diventan tristi se noi piangiam”.  E noi, giustamente, non vogliamo far piangere nessuno, soprattutto chi ha il potere di silenziarci e di tenerci buoni, ovviamente solo per il nostro bene.  Però poi uno non può fare a meno di accorgersi di come la mistificazione si sia impadronita della comunicazione pubblica, ad esempio dando una opportunistica mano di vernice verde alla produttività ed alla tecnologia, ma trascurando scandalosamente i veri problemi di fondo di un pianeta che si sta ribellando al nostro impatto predatorio, consumistico ed energivoro.

E allora, nonostante tutto, capita che qualcuno non ce la faccia proprio a sopportare il cumulo di falsità che ci scaricano addosso ogni giorno, che si ribelli al Bispensiero ed alla Neolingua che Orwell aveva profetizzato più di 71 anni fa come chiavi del dominio delle masse prossimo venturo. E allora può capitare che ci si senta delusi, amareggiati, ingannati ed un po’ “fuori di testa”. Come cantano i Måneskin, però: “Siamo fuori di testa ma diversi da loro”. Il guaio è che salvare la diversità – non quella finta da spettacolo, ma quella autentica, che è la ricchezza della democrazia – è diventata ormai un’impresa eroica. Come quella ostinata e disperata di Icaro, cui si allude proprio nella canzone: “Dal punto giusto di vista /Del vento senti l’ebrezza / Con ali in cera alla schiena / Ricercherò quell’altezza / Se vuoi fermarmi ritenta / Prova a tagliarmi la testa / Perché / Sono fuori di testa ma diverso da loro”.

Oggi nessuno vuole tagliarci la testa. Evitiamo però di farcela svuotare del tutto dal chiacchiericcio insulso e dalle indiscutibili verità calate dall’alto. Solo così ce la faremo a salvare la nostra ‘diversità’, riprendendo a ragionare con la nostra testa e a volare con le nostre ali umane.

© 2021 Ermete Ferraro

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