Nel tempo necessario per leggere questo post l’Italia sta spendendo oltre 51.000 euro per le spese della c.c. “difesa”. Nel 2010, infatti, sono stati già spesi 27 miliardi di euro, vale a dire 76 milioni ogni giorno, 3 milioni ogni ora e, appunto, oltre 51.000 euro al minuto!
In aggiunta a quest’enorme quantità di risorse economiche assegnate al Ministero della Difesa nello scorso anno, il Parlamento italiano – su proposta del Governo – ha approvato una spesa di altri 17 miliardi di euro nei prossimi anni, per l’acquisto di 131 caccia-bombardieri F35. Basterebbe rinunciare ad un solo cacciabombardiere e si potrebbero costruire 183 nuovi asili per 12.810 bambine e bambini…
La partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan ci costa tuttora 2 milioni di euro al giorno ed ha causato decine di migliaia di vittime, in maggioranza civili. L’ultima delle operazioni armata cui abbiamo partecipato, quella contro la Libia che in teoria si è appena conclusa, ci è finora costata 700 milioni di euro!
Ma siccome siamo un grande Paese industriale, nel 2009 l’Italia ha esportato armi per un circa 5 miliardi di euro, contribuendo ad alimentare focolai di guerra in tutto il mondo!
L’art. 11 della Costituzione della nostra Repubblica dichiara solennemente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Ma i 27 miliardi all’anno già spesi ed i 17 previsti solo per i nuovi caccia F35 che cosa hanno a che fare con la “difesa della Patria” che – secondo l’art. 52 della stessa Costituzione – sarebbe “sacro dovere del cittadino” ? E le missioni armate cui abbiamo aderito supinamente, quelle passate e quelle attuali, non sono forse atti di quella guerra che, secondo la Carta costituzionale, dovremmo invece “ripudiare”?
Il Governo ha tagliato 8 miliardi alla scuola ed ai servizi sociali, però non vuol rinunciare neanche ad uno dei 131 bombardieri F35, il cui solo costo permetterebbe di realizzare ben 183 asili! Non ci resta, allora che protestare contro l’ipocrisia di chi vorrebbe contrabbandare il 4 novembre come una celebrazione civile e di unità nazionale, come se le Forze Armate avessero una mission diversa da quella di addestrarsi a fare la guerra.
L’alternativa c’è, e da molti anni. Decenni di lotte per l’0biezione di coscienza, il servizio civile nazionale e l’affermazione della difesa civile nonviolenta ci hanno portato ad una legislazione in teoria esemplare nel contesto dell’Unione Europea. Purtroppo si continua a fare propaganda strisciante ed ambigua nelle scuole, a vanificare le potenzialità del servizio civile e ad ignorare ogni reale alternativa alla difesa armata. Contro tutto questo è doveroso non solo indignarsi, ma lottare contro le mistificazioni militariste e per diffondere una cultura di pace e di nonviolenza attiva.
Ecco perché non c’è nessuna “vittoria” da festeggiare il 4 novembre, ma piuttosto l’esigenza di commemorare le centinaia di migliaia di morti delle tante “inutili stragi” della nostra storia ed un impegno comune perché l’Italia si “desti” sì, per cingersi la testa non dello “elmo di Scipio”, ma con una pacifica corona di foglie d’ulivo.
(C) 2011 Ermete Ferraro
Archivi giornalieri: 13 dicembre 2011
ECOPACIFISMO: VISIONE E MISSIONE
di Ermete Ferraro (Referente Naz. VAS per l’Ecopacifismo)
1. Quale ecopacifismo ?
In occasione della IV Festa VAS della Biodiversità , nel 2004, fu pubblicato un mio articolo proprio con questo titolo. In quell’occasione, partendo dalla ricognizione sul significato dei concetti-base (ecologia, ecologismo, conservazionismo, ambientalismo, irenismo, antimilitarismo, pacifismo e nonviolenza), avanzavo poi la proposta di ciò che ritenevo un autentico ecopacifismo.
Anche se quindici anni d’impegno in VAS mi hanno offerto l’opportunità di fare qualcosa di concreto per l’attuazione del sano connubio tra ecologismo e pacifismo cui mi riferivo, devo onestamente riconoscere che il bilancio complessivo dei sette anni trascorsi da quell’articolo, per quanto concerne il nostro Paese, mi sembra tutt’altro che soddisfacente. Basta fare una veloce ricerca su Internet , infatti, per riscontrare la quasi totale assenza di questa proposta sullo scenario politico italiano ed internazionale. Qualche analisi e qualche esperienza organizzativa in tal senso, semmai, è riscontrabile nel mondo ispanico, dove di “ecopacifismo” si discute ancora, riconoscendogli un ruolo più chiaro nell’ambito del più complessivo movimento ecologista, verde, anticapitalista e terzomondista.
Ritengo che la carenza di un pensiero, ma ancor più di un’azione, specificamente “ecopacifista” sia frutto d’una concezione statica e sempre più pragmatica della politica, in cui le stesse ideologie ‘classiche’ hanno da tempo perso ogni capacità di attrarre e di aggregare, rimpiazzate da un movimentismo confuso e privo di prospettive, se non da correnti manifestamente antipolitiche. Lo stesso movimento pacifista d’impronta nonviolenta ha sempre stentato ad affermarsi in un panorama politico dove le uniche coordinate restavano quelle tradizionali (destra-centro-sinistra), pur essendo superate, nei fatti, dalla realtà di un quadro politico sempre meno ideologico. Una vera novità nel panorama di quest’ultimo trentennio è stato il movimento ecologista e verde, ma il suo incanalarsi nelle strettoie del partitismo e del leaderismo, ed il prevalere della tattica sulla strategia laddove esso è diventato elemento di governo, ne hanno eroso la capacità d’incidere davvero e di diventare una vera alternativa. Le organizzazioni di matrice antimilitarista e pacifista, da parte loro, in questi anni si sono ulteriormente frammentate di fronte all’incalzare di conflitti armati e di strategie geopolitiche sempre più aggressivamente militariste, cui non hanno avuto la forza di contrapporre non solo i tradizionali “signornò’, bensì una difesa alternativa, civile e nonviolenta.
Eppure questo trentennio ci ha offerto un quadro, desolante ma fin troppo chiaro, della fondatezza della proposta ecopacifista e della sua valenza non solo come netta opposizione al complesso militar-industriale ed ai suoi velenosi frutti in campo economico, politico e bellico, ma anche come possibile laboratorio di un gandhiano “programma costruttivo”.
I tragici avvenimenti di questi anni ci hanno dimostrato, infatti, che il disastro ambientale e la persistenza e diffusione delle guerre sono strettamente connesse tra loro. Le politiche di consumo e di produzione degli stati e quelle relative alla c.d. ‘sicurezza nazionale’ sono ormai talmente collegate da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa del Pianeta. Ciò premesso, diventa ancor più inspiegabile la banalizzazione e frammentazione del movimento ambientalista e la sua mancata alleanza con quello pacifista, contro la guerra e per il disarmo e la smilitarizzazione del territorio.
Non ha quindi senso, ad esempio, perseguire un’astratta eco-sostenibilità dell’economia, se essa continua ad essere assoggettata alla logica d’un capitalismo globalizzato e pervasivo, che ricorre sempre più spesso alla strategia bellica quando l’aggressione ‘pacifica’ e neocolonialista del mercato non basta più.
Allo stesso modo, mi sembra evidente che non basta manifestare contro guerre ed invasioni armate se non ci si sa opporre anche ad un modello di sviluppo predatorio, nemico della natura e dei suoi equilibri almeno quanto lo è della giustizia e della pace. Sarebbe una vera follia pensare che – come sottolinea uno studioso catalano – ci si possa opporre ad un’aggressione militare o a dittature pensando che ciò non abbia a che fare con la battaglia per modelli più sostenibili di energia oppure con un’agricoltura non più dominata dalle monoculture e dall’accentramento delle risorse alimentari del nostro pianeta.
Ecco perché, già sette anni fa, avevo proposto l’ecopacifismo come “…l’anello di congiunzione tra le lotte per l’ambiente e quelle per la pace, a partire dalla consapevolezza che […] entrambi si alimentano di una scelta etica, fondata sul rifiuto della violenza e del dominio come forze necessarie per il cambiamento e lo sviluppo”. La “triade” ambiente/sviluppo/attività militari – di cui aveva parlato Johan Galtung già negli anni ’80 – avrebbe richiesto una strategia unitaria ed una saldatura organizzativa, in modo da contrapporre al modello violento di economia e di società uno sviluppo equo, ecocompatibile e nonviolento.
Nel mio saggio, a tal proposito, ricordavo alcune interessanti impostazioni ed esperienze del movimento verde che lasciavano presagire una sensibilità in tal senso. Anche alcune serie proposte di “ecologia sociale”, diffuse in ambito europeo ed anche italiano , avrebbero lasciato sperare nel rilancio dell’opzione ecopacifista. Un’altra corrente di pensiero che avrebbe potuto alimentarne lo studio e la pratica è quella che fa riferimento al pensiero c.d. “ecoteologico” ed alla crescente sensibilità delle Chiese cristiane verso il trinomio “giustizia/pace/salvaguardia del creato”. Anche in questo caso, però, la profonda ed autorevole riflessione di tanti teologi e vescovi e lo stesso magistero degli ultimi tre pontefici non sembra aver coinvolto profondamente tali comunità. Esse stentano a far proprio il “principio responsabilità” di cui parlava Hans Jonas, insieme ad altri filosofi e teologi che hanno insistito sulla centralità di un’etica ambientale. Mi sembra, allora, che il pur affascinante progetto di conversione e di nuova evangelizzazione della nostra società, a partire dalla diffusione di “nuovi stili di vita” fondati sulla sobrietà e più equi e solidali , non sia riuscito ancora a permeare davvero il progetto per una “civitas” cristiana.
2 . Ecopacifisti: come e perché ?
All’interrogativo “Quale ecopacifismo?” del mio precedente contributo avevo risposto proponendo: (a) alcune priorità programmatiche: disarmo e difesa alternativa, tutela della diversità ecologica e culturale, ecologia sociale applicata al quotidiano; (b) alcune strategie operative: rapporto col movimento antiglobalizzazione, con quello no-war e nonviolento e con le organizzazioni ecologiste e verdi; (c) un’ipotesi strategica: l’apertura, da parte anche dei movimenti più radicalmente laici, alla collaborazione con le comunità cristiane più sensibili ed inclini a coniugare la scelta per la pace con quella per la giustizia e la tutela dell’ambiente.
Sta di fatto, però, che la realtà politica attuale appare sempre più frammentaria, deprimente sul piano etico, dominata da un pensiero unico e ripiegata in una sorta di passiva rassegnazione. Peraltro, credo sia innegabile che negli ultimi tempi si siano moltiplicati movimenti spontanei, aggregazioni virtuali tramite i social networks, mobilitazioni giovanili a livello internazionale e perfino grossi movimenti di opposizione e di resistenza ai vari regimi ancora esistenti, soprattutto nell’area arabo-mediterranea. E’ mancato, però, un filo conduttore che desse a tali battaglie un respiro più ampio ed una strategia condivisa, coniugando l’opposizione sociale alla creazione dal basso di una vera alternativa economica, sociale, ambientale e difensiva.
Lo stesso movimento degli “indignados” dà il segnale chiaro e forte di uno scontento generale, però non lascia intravedere una visione strategica globale che segua la sacrosanta protesta contro i padroni dell’economia mondiale e l’inettitudine di una privilegiata casta politica.
“Il metabolismo della società determina gran parte della sua geopolitica, ed in particolare la violenza che essa trasmette sia all’esterno sia all’interno […] (questa) è una relazione sistemica essenziale che deve essere messa in luce e con cui bisogna confrontarsi, prima che sia troppo tardi. Ciò significa che i precetti della cultura della pace devono diventare parte dell’ambientalismo e quelli ambientali devono diventare parte del pacifismo e dell’antimilitarismo. La questione va ben oltre ciò che potrebbe essere un’alleanza tattica tra movimenti sociali per la giustizia globale.” .
“Prima che sia troppo tardi” non è un’espressione da “apocalittici” per dare la sveglia ai troppi “integrati”, per mutuare l’efficace antitesi proposta negli anni ’60 da Umberto Eco. E’ l’oggettiva constatazione del grave ritardo nella diffusione nell’attuale società dell’ecopacifismo non solo come ipotesi teorica, ma come strategia politica credibile ed efficace.
Un segnale d’allarme lo ha recentemente lanciato anche uno dei più qualificati studiosi italiani di ecologia, Giorgio Nebbia, quando in un editoriale sulla rivista di VAS ha sottolineato la fragilità del legame tra pace e ambiente nella comune percezione e coscienza:
“Se ci si volta indietro, nei sessantasei anni trascorsi dalla pace del 1945, quando finì l’ultima “grande guerra”, non c’è stato un solo giorno di vera pace nel mondo […]La violenza ha dominato e pervaso la storia umana. C’è motivo di ricordarlo anche in questa rubrica perché ogni conflitto, ogni scontro, ha avuto cause ed effetti ambientali. Dietro le scuse “ufficiali” di difesa di diritti politici o umani o dietro motivi religiosi o con la scusa di assicurare a qualcun altro la libertà da qualche cosa, c’è sempre stata la volontà di impossessarsi di beni territoriali o ambientali “altrui”: la conquista di terre fertili, o di spazio, o di risorse naturali o il controllo dell’acqua dei fiumi…”
Nebbia, ad esempio, ha opportunamente sottolineato il circolo vizioso che, nel proliferare di conflitti armati e relative ‘missioni di pace’, lega gli interessi economici dei militari e delle industrie belliche ai profitti connessi alla successiva “ricostruzione” di quanto quelle guerre, grazie agli stessi governi, hanno provveduto a distruggere. Questo cinico gioco al massacro del complesso militar-industriale ci costa, solo in termini economici, 3.000 miliardi di euro all’anno, sottratti ovviamente agli investimenti per lo sviluppo collettivo, per il risanamento ambientale e per il benessere sociale.
“[ Questo] sarebbe perciò il “valore monetario” della pace, soldi che potrebbero essere investiti nelle armi della pace: anche la pace, infatti, ha le sue armi che sono scuole, ospedali, abitazioni, acqua, servizi igienici, sicurezza nelle proprie terre e nei propri campi, cibo e miglioramento dell’ambiente, occupazione. Ma non ci sarà mai pace fra gli esseri umani e con l’ambiente naturale senza una equa distribuzione dei beni che la Terra offre e che sono grandi e sarebbero sufficienti per tutti. La pace è figlia della giustizia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafrasandolo, si può ben dire che l’ambiente è figlio, a sua volta, della pace.”
L’interrogativo “ecopacifismo: come?”, allora, passa oggettivamente in secondo piano rispetto all’urgente necessità di chiederci, qui e ora: “ecopacifismo:perché?”. E’ una domanda che nasce dalla constatazione del tempo già perso, in attesa di una saldatura teorica tra le priorità dell’ecologismo e quelle del pacifismo. Un interrogativo, dunque, che richiede risposte immediate.
3. Che fare?
Una certa miopia dei movimenti ed la scarsa tendenza a mettere in pratica il classico slogan ambientalista “pensare globalmente, agire localmente”, ci costringono allora ad ipotizzare un’alleanza quanto meno operativa fra queste due dimensioni dell’agire politico. I terreni sui quali si possono sperimentare interventi comuni non sono certo pochi, a livello sia nazionale sia internazionale. Basti pensare all’assurdo tentativo del governo di riproporre agli Italiani l’opzione nucleare, sconfitta con un movimento referendario composito e dal basso più che grazie ai tatticismi dei partiti e di alcune associazioni ambientaliste, troppo istituzionalizzate per essere davvero incisive. Si pensi, inoltre, all’accresciuta e più diffusa sensibilità della gente in campo alimentare e contro l’uso degli OGM, un altro settore dove da decenni si esercita il ferreo controllo delle multinazionali, oppure alla vincente battaglia referendaria per l’acqua pubblica e gestita con criteri sociali, contro l’avidità delle grandi imprese internazionali che in parte già la controllano. In ambedue i casi, infatti, sono innegabili i risvolti non solo economici sociali e civili di quelle scelte, ma anche il loro collegamento col rifiuto d’un mondo assoggettato al potere delle multinazionali, della finanza e del complesso militar-industriale.
Mai come in questo periodo, del resto, sta crescendo nel cittadino medio la consapevolezza che la crisi finanziaria globale è strettamente connessa ad una strategia di controllo non solo dei mercati mondiali, ma anche delle risorse energetiche strategiche e degli equilibri geo-politici complessivi. A questo “capitalismo-avvoltoio” – com’è stata efficacemente definita negli stessi USA la complicità fra i grandi di Wall Street ed il complesso militar-industriale – bisognerebbe contrapporre una strategia altrettanto complessiva ed internazionalmente diffusa. Molti “indignati” che scendono in piazza contro chi vorrebbe accollare alla gente comune il debito pubblico fanno spesso riferimento ad alcune delle ‘teste’ di quella che Livergood definisce una vera e propria ‘idra’, fra cui la Banca Mondiale (W.B.) ed il Fondo Monetario Internazionale. (I.M.F.). Pochi di essi, però, si rendono conto dell’intreccio fra: (a) piani di delocalizzazione delle aziende voluti dalle multinazionali; (b) coperture governative e finanziarie a queste operazioni speculative, in primo luogo sullo scenario asiatico; (c) crescita delle esportazioni di armamenti a tali paesi come ulteriore leva di controllo anche sul piano militare; (d) acquisizione a prezzi stracciati, da parte del capitalismo-avvoltoio, di banche, fabbriche ed interi patrimoni, non appena gli stati-cliente cominciano ad ‘andare sotto’; (e) offerta di prestiti e finanziamenti – da parte di IMF e WB – alle economie più fragili, in cambio di drastiche misure di riduzione delle garanzie ai lavoratori ed ai pensionati; (f) ulteriori operazioni speculative sul piano finanziario e monetario ai danni di tali ‘economie fragili’, in questo modo ancor più assoggettabili.
Per un movimento ecopacifista – o che, quanto meno, abbia l’ecopacifismo tra i suoi principi ispiratori – non mancherebbero le occasioni per sottolineare queste perverse connessioni e per intraprendere battaglie che vadano ad incidere sulle tre dimensioni delle questioni citate. Difendere l’acqua come bene comune o sconfiggere il nucleare civile, come ho già accennato, sono state poste come scelte il cui peso andava ben oltre la difesa dell’ambiente, coinvolgendo molti altri aspetti.
Agli italiani/e più sensibili e consapevoli, infatti, non è certo sfuggito che i quesiti referendari ponevano con forza anche altre questioni: rivendicazione del diritto alla salute, autogestione delle risorse naturali, opposizione al nucleare di guerra, riaffermazione della democrazia dal basso e della partecipazione popolare, sfida alle multinazionali che da tempo stanno privatizzando e controllando i beni comuni, fuoriuscita da meccanismi di subalternità verso le scelte dei paesi economicamente, politicamente e militarmente egemoni.
Eppure bisognerebbe fare molto di più. Se soltanto facciamo una rapida rassegna dei principi fondativi delle più conosciute organizzazioni ambientaliste del nostro Paese, ad esempio, emerge chiaramente che solo poche coniugano nei loro statuti l’ecologia col perseguimento d’una società più giusta e più pacifica. Se tralasciamo il caso classico di Greenpeace , associazione internazionale ispirata da principi nonviolenti ed il cui ecopacifismo traspare dallo stesso nome , riferimenti espliciti li troviamo solo in alcune realtà associative. E’ il caso di Legambiente, nel cui statuto leggiamo, all’art. 2 comma 6: “È un’associazione pacifista e non violenta, si batte per la pace e la cooperazione fra tutti i popoli al di sopra delle frontiere e delle barriere di ogni tipo, per il disarmo totale nucleare e convenzionale” . Ciò è vero anche per l’associazione Verdi Ambiente e Società, nel cui documento statutario, all’art. 3, troviamo scritto che V.A.S. : “… (2) promuove e favorisce le iniziative che, nel rispetto dei valori e dei diritti umani civili e sociali e nella salvaguardia del patrimonio naturale e storico-culturale, consentano l’equo impiego delle risorse disponibili, per il superamento degli squilibri economici-sociali, delle sacche di sottosviluppo e delle contraddizioni esistenti tra uomo, natura ed ambiente; (3) promuove e favorisce la cultura ambientalista, eco-solidale ed eco-pacifista…”
Delle circa ottanta organizzazioni ambientaliste riconosciute dal governo italiano , solo un’esigua minoranza dichiara di perseguire finalità non circoscritte esclusivamente alla protezione dell’ambiente ma d’impegnare anche per un mondo più giusto e senza violenza. Se andiamo a scorrere l’elenco di queste associazioni, inoltre, si nota poi, a partire dalle stesse denominazioni, che gran parte di loro non si occupa nemmeno di ambiente a tutto tondo, bensì di questioni spesso specifiche se non settoriali (caccia, animalismo, urbanistica, ambiente alpino, tutela avicola, salvaguardia dei mari e delle coste, ciclismo etc.).
E’ evidente, pertanto, che di strada da percorrere ce n’è ancora molta e che, tenendo conto anche della crisi attuale del movimento pacifista in Italia, sempre più frammentato e privo di prospettive condivise di alternative alla guerra, si tratta oggettivamente di un percorso molto difficile. Esistono, però, alcune questioni sulle quali si potrebbe da subito cercare la convergenza operativa delle organizzazioni ecologiste e di quelle pacifiste. La prima è certamente quella relativa alle scorie nucleari ed al loro ritrattamento, finalizzato alla fabbricazione di armamenti atomici. La seconda è senz’altro la battaglia contro la presenza di natanti a propulsione nucleare in alcuni porti del nostro Paese. Un’altra potrebbe essere, inoltre, il rilancio del rischio ambientale connesso all’inquinamento elettromagnetico generato da mostruosi apparati (stazioni radar e per telecomunicazioni), massicciamente presenti in basi ed aeroporti militari collocati in aree densamente urbanizzate. Non dimentichiamo, poi, le campagne contro le c.d. “banche armate”, finanziatrici dell’industria bellica, cointeressate in molte imprese industriali multinazionali ed in speculazioni edilizie, anche se spesso ipocritamente atteggiate a benefattrici dell’umanità o perfino sponsor di progetti di recupero ambientale.
Se soltanto riuscissimo a coagulare intorno a queste quattro tematiche un nucleo di movimento ecopacifista, penso che sarebbe già un passo notevole verso la creazione di una realtà più qualificata, che non si limiti a fare “fronte comune” ma sappia pensare più globalmente.
Un tentativo in tal senso lo stiamo facendo da anni noi di VAS in Campania, aderendo ad una preesistente rete operativa (il Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio) ed offrendo il nostro contributo fattivo sulla vertenza relativa al rischio nucleare nel porto di Napoli , ma anche sull’opposizione alla presenza di comandi strategici e basi militari – sia USA sia della NATO – nel cuore della città capoluogo (Bagnoli, Nisida, Capodichino) e nell’intera regione Campania (in primo luogo il nuovo Comando alleato presso il Lago Patria (Giugliano).
Rilanciare l’ecopacifismo come un vero e proprio “programma costruttivo” in alternativa ad un mondo sempre più militarizzato ed asservito alle multinazionali è però un obiettivo più grande ed ambizioso, cui tutti sono chiamati a dare un contributo. Prima che sia troppo tardi.
RIFERIMENTI:
1 V.A.S. è l’acronimo di “Verdi Ambiente e Società”, associazione – onlus riconosciuta dal Min. dell’Ambiente fin dal 1994 come ‘organizzazione nazionale di protezione ambientale’ (www.vasonlus.it ). La “Festa della Biodiversità” è stata organizzata a Napoli – dal 200 al 2004 – a cura del Coordinamento Regionale Campania di VAS.
2 Ermete Ferraro, Quale ecopacifismo? in “Biodiversità a Napoli” – suppl. a Verde Ambiente, anno xx, n. 2 (mar.-apr. 2004, pp. 21-27). Per altri contributi di E.F. cfr. la bio-bibliografia sul suo sito web: http://www.ermeteferraro.it .
3 Vedi: N. Bergantiños, P. Ibarra Guel, Eco-pacifismo y Antimilitarismo. Nuevos movimientos sociales… ; Ecopacifismo: unha proposta; E. Campomanes, Los Verdes del Estaso Español: ¿Reformismo politico o ecopacifismo radical? ; Cielo Abierto, ¿Que es el Eco-pacifismo?
4 D. Llistar i Bosch, Environmentalism and Peace, in http://www.visionofhumanity.org (nov. 2010)
5 E. Ferraro, Quale ecopacifismo? , cit, p. 24
6 Johan Galtung, Ambiente sviluppo e attività militari, Torino, E.G.A., 1984
7 Vedi, ad es., fra gli altri, gli interessanti contributi di Virginio Bettini, Paolo degli Espinosa, Giuliana Martirani, Giorgio Nebbia ed Antonio D’Acunto. Per quest’ultimo – col quale condivido da molti anni le battaglie eco pacifiste in Campania – visita anche il sito http://www.terraacquaariafuoco.it , che raccoglie i suoi principali contributi.
8 In questa prospettiva cfr. alcuni contributi di E. Ferraro: Laude della biodiversità , Napoli, VAS, 2005; Adam-adamàh: un’agape cosmica, Bologna, Filosofia Ambientale (gen. 2008); Il Salmo del Creato, Bologna, Filosofia Ambientale (mar. 2009) vedi: http://www.filosofia-ambientale.it
9 Cfr. E. Ferraro, Sobrietà, essenzialità e giustizia per una vera conversione ecologica, pubbl. a set. 2008 su http://www.scrivi.com; vedi anche i vari articoli postati sul mio blog “Pacebook” e riferibili al tema dell’ ecoteologia.
10 D. Llistar i Bosch, op. cit. (trad. mia).
11 G. Nebbia, Pace e ambiente, editoriale (set. 2011) su http://www.vasonlus.it
12 Ibidem
13 Vedi: Norman D. Livergood, Vulture Capitalism, in: http://www.hermespress.com (1999 ?)
14 “Our core values”, in: http://www.greenpeace.org/international/en/about/our-core-values/
15 Statuto di Legambiente: http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/statuto.pdf
16 Statuto di Verdi Ambiente e Società Onlus: http://www.vasonlus.it/chi-siamo/statuto
17 Vedi: http://www.isprambiente.gov.it/site/it-IT/ISPRA/Organizzazioni_ambientali/L’ambiente_in_Italia/Associazioni_ambientaliste/
18 Ermete Ferraro, A propulsione anti-nucleare (15 anni di lotte ecopacifiste di VAS per la sicurezza del cittadini e per la denuclearizzazione del porto di Napoli.
THANATOIKONOMIA – DEATH ECONOMY
E’ davvero singolare. Una delle più profonde e spietate analisi della situazione in cui ci troviamo, a livello globale, non l’ho trovata nel dotto saggio di un politologo ma nel nervoso scritto di un immaginifico scrittore di thriller. Mi sono imbattuto, infatti, in un articolo apparso sulla rivista online “Carmilla”, in cui il noto giallista e traduttore Sergio Altieri (alias Alan D. Altieri) ha tracciato un efficace ritratto della “Death Economy. Il baratro terminale del collasso economico planetario” http://www.carmillaonline.com/archives/2011/11/004093.html#004093 .
In un recente contributo sulla necessità di riscoprire e praticare un approccio “ecopacifista” alla realtà attuale (http://www.vasonlus.it/per-la-stampa/gli-editoriali/968-ecopacifismo-libia) anch’io mi sono soffermato sulla connessione tra crisi economico finanziaria, devastazione ambientale e dominio del complesso militar-industriale a livello globale. La mia proposta è quella d’una strategia unitaria per un movimento che non si accontenti di esprimere indignazione e generica opposizione, ma tenti di prefigurare un’alternativa reale ed un gandhiano “programma costruttivo”.
L’articolo di Altieri, nel suo duro e disincantato linguaggio giallo-nero, mi sembra una lucida sintesi di quel futuro che sarebbe comodo etichettare come fantapolitica, ma è l’impressionante immagine del tragico esito del collasso dell’economia globale, raffigurato dalla squallida “collina dei suicidi”, dove l’umanità sembrerebbe aver deciso di consumare la sua tragica esistenza.
“Il giorno in cui le banche avranno cessato di esistere segnerà la “fine del mondo” così come lo abbiamo conosciuto da ben prima della Rivoluzione Industriale in avanti. – scrive – Il giorno in cui le banche avranno cessato di esistere sarà la suicide hill, collina dei suicidi, di qualcosa che conosciamo già ora. Questo qualcosa ha un nome: Death Economy, Economia della Morte”.
E’ singolare, ripeto, ma non certo casuale che per sintetizzare il quadro della crisi attuale e delle sue cause ci volesse un esperto di letteratura “noir”. Al di là delle sue cupe immagini di un’umanità sempre più degradata e protesa sul baratro del suicidio planetario, mi pare infatti che dal suo articolo emerga la lucida analisi di come siamo giunti a questo punto di quasi non-ritorno. Il suo richiamo ad un classico dell’economia capitalista, d’altra parte, dimostra che la mente umana può essere estremamente profetica, ma anche che l’umanità non ha mai saputo né voluto dare ascolto agli spietati vaticini dei suoi profeti.
“ Nell’analisi di John Maynard Keynes sulle crisi ricorrenti del capitalismo la DE [Dealth Economy] è un algoritmo ineluttabile verso il baratro:- guerra di conquista e sterminio: – controllo coatto delle materie prime; – depauperamento estremo delle medesime; – dominio totale sul lavoro dipendente; – aumento dei profitti; – picco consumistico; – aumento del debito privato; – saturazione dei mercati; – aumento del deficit pubblico;- impennata della speculazione bancaria; – corto-circuito stagnazione-inflazione-recessione; – spirale di depressione;- collasso sistemico conclusivo”.
In questo solo brano dell’articolo di Altieri trovo racchiusa “in nuce” la tragica spirale di morte che egli definisce “ineluttabile”. Eppure sarebbe ancora possibile spezzarla, se solo ci decidessimo a cambiare radicalmente strada, con una vera “conversione” che, però, è certamente molto di più impegnativa della pura e semplice adesione ad una proposta politica alternativa. Altieri ci aiuta, col suo linguaggio in bianco e nero, a distinguere tra le ‘grandi guerre’ di una volta, ormai troppo costose e poco produttive, e quelle che ci stanno moltiplicando sotto gli occhi, travestite da conflitti periferici e localizzati.
“Profitto a ogni costo, con ogni mezzo, contro ogni ostacolo. Profitto di pochi, pochissimi: alcune migliaia di individui a livello mondiale […]. Perdurando sottotraccia nell’Occidente in generale, negli USA in particolare, la DE continua comunque a servirsi delle guerre su un doppio canale di manipolazione propagandistica e industriale: – nessuna guerra grossa, sostituita però dalla minaccia della guerra “finale” (Guerra Fredda/guerra nucleare)con conseguente profitto dalla corsa agli armamenti strategici, rimpiazzata ora dalla eterna “guerra al terrore globale”, dove fa brodo tutto & il contrario di tutto;
– infinite guerre asimmetriche, primariamente nei quadranti medio-orientale, africano e sud-americano, con conseguente profitto della vendita di armamenti convenzionali simultaneamente a tutte le parti belligeranti”.
Quello che preoccupa seriamente è che, una volta calato il sipario sul teatrino del berlusconismo e sulla politica da cabaret, i c.d. poteri forti vogliono ora fare sul serio. Che cosa c’è di meglio, allora, di un irreprensibile ed autorevole Professore come premier di un governo tecnocratico, con tanto di ammiraglio alla difesa, prefetto agli interni, ambasciatore agli esteri, rettore all’istruzione e, of course, un banchiere all’economia? Eccovi servito il governissimo bipartisan di Monti, fortemente voluto dal Presidente della Repubblica e caldamente sponsorizzato dalle gerarchie vaticane, dall’Amministrazione USA nonché dalla potentissima “Trilateral Commission”, della quale il professor-senatore-a-vita Mario Monti è addirittura Presidente del Comitato Europeo.
“Per la DE, la globalizzazione è LA svolta epocale. I grandi imperi industriali a conduzione famigliare …superano finalmente la fase di multinazionali degli anni ’70 e si trasformano in sistemi conglomerati globali. Vere e proprie fortezze del meta-capitale, sostenuti da apporti di liquidità tanto immani quanto ignoti, dotati di polivalenza accorpata (banche commerciali, banche finanziarie, industrie, finanze, investimenti, immobili, trasporti, comunicazioni etc.), i sistemi conglomerati globali possiedono una struttura frattale la cui complessità si fa beffe di qualsiasi parametro di qualsiasi scrutinio da parte di qualsiasi ente governativo.[…] A decidere tutto per tutti sono enigmatici consigli di amministrazione che si riuniscono in conference call via computer. O magari, se proprio vogliono mettersi in mostra, nella sala congressi di alberghi a 666 stelle. Dai molti guru delle conspiracy theories, questi enigmatici consigli di amministrazione sono chiamati in una quantità di modi: NWO (New World Order), massoneria, Illuminatus, Trilateral Commission, Bilderberg Group, etc. Che ognuno scelga il nome che preferisce.”
Anche in questo caso l’articolo di Altieri risulta davvero illuminante. Diceva John Belushi in “Animal House” (e cantava Billy Ocean): “When the going gets tough, the tough gets going”. La citata traduzione italiana (“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”) credo ci dia la misura di ciò che sta succedendo anche in Italia, con l’avvento al potere – ovviamente molto discreto e sottotono – delle potenti lobbies che Altieri chiamava “conglomerati globali”.
Basta dare una scorsa all’elenco dei membri italiani della famigerata “Trilateral”, ad esempio, (http://www.trilateral.org/download/file/TC_list_10-11_2.pdf) per imbattersi nel gotha dell’aristo-pluto-tecnocrazia: vertici di assicurazioni multinazionali come Cortina e Cucchiani; industriali come Elkann, Guarguaglini, Guidi, Pesenti, Rocca e Tronchetti Provera; banchieri come Rampl, Sala e Sella; militari ed esperti di strategia come Ramponi e Silvestri; politici e politologi come E. Letta, Secchi e Venturini. Ce n’è abbastanza per stare all’erta, pur lasciando stare le “conspiracy theories” sul “Nuovo Ordine Mondiale” evocate dallo stesso Altieri. La perversa spirale banche – assicurazioni – industria pesante – fabbriche di armamenti – militari – cementieri è pienamente rappresentata. Se poi diamo un’occhiata anche ai nomi italiani che figurano come membri del potentissimo “Bilderberg Group” – secondo le rivelazioni del sito http://fromthetrenchesworldreport.com/bilderberg-group-2011-full-official-attendee-list/4870 – vi troviamo nomi nuovi (come Bernabè della Telecom Italia, Scaroni dell’ENI e l’ex-superministro dell’economia Tremonti), ma anche alcune personalità già citate, come Elkann e lo stesso neo-premier Monti. Se a questo elenco aggiungiamo la nomina a Ministro della Difesa dell’ammiraglio Di Paola (ex capo di stato di stato maggiore italiano ed attuale presidente del Comitato Militare della NATO) ed a Ministro di Economia e Trasporti del mega-banchiere Corrado Passera (già a.d. del gruppo Intesa-San Paolo), sembra che siamo di fronte ad un vero e proprio “conglomerato” di interessi forti che farebbe impallidire lo stesso sistema di potere berlusconiano.
Eppure sembra che questo governo faccia comodo a quasi tutti e che riscuota una specie di plebiscito parlamentare, ovviamente perché potrà fare indisturbato il “lavoro sporco” che la destra pseudo-liberale e la sinistra pseudo-socialista non hanno finora avuto….l’opportunità di portare a compimento, preoccupate come sono di salvaguardare il proprio elettorato. Ma gli Italiani non sono fessi come Lorsignori amano credere e dietro le churchilliane“lagrime e sangue” che ci aspettano dietro l’angolo sapranno leggere non solo gli imprescindibili “sacrifici” cui saremmo chiamati dai sussiegosi leaders europei ed americani, ma anche il pesante giro di vite del capitalismo globale per allineare e manovrare meglio le marionette dell’economia planetaria.
Ecco perché dobbiamo prendere coscienza di questa minaccia e ad organizzare una rete di opposizione e di resistenza ecopacifista al nuovo regime militar-industrial-finanziario in doppiopetto, se non vogliamo trovarci sulla “suicide hill” descritta da Altieri come logica conclusione del collasso planetario provocato dalla tragica “economia della morte”.
(c) 2011 Ermete Ferraro