SETTEMBRE ANDIAMO, E’ TEMPO D’INSEGNARE

Quest’impropria citazione della nota poesia ‘pastorale’ di D’Annunzio mi è venuta in mente mentre mi avviavo a prendere servizio alla nuova scuola nella quale mi sono appena trasferito. D’altra parte, non c’è bisogno di essere insegnanti per ricordarsi che, tra pochi giorni, le scuole riapriranno i battenti, per accogliere frotte di bambini, ragazzi e giovanotti abbronzati e sudati. E così, una vociante massa di esseri, fino a quel momento liberi e belli, torneranno all’improvviso “alunni”, già stressati dal fatto di doversi nuovamente mettere seduti e più o meno fermi a seguire per parecchie ore qualcuno che – non meno sudato e stressato di loro – si ritroverà ancora una volta a svolgere il ruolo di chi deve insegnargli qualcosa malgré eux. Come succede nelle fiabe, è come se una specie di maleficio stesse per abbattersi su questi due gruppi di persone, condannandoli a fronteggiarsi con diffidenza, più che con comprensibile curiosità. A sottolineare il rito che si ripete, ecco allora giornali, riviste e spot tv riempirsi improvvisamente di zaini, portapenne e vari ammennicoli scolastici, mentre cominciano a circolare gli elenchi dei nuovi libri di testo e gli studenti iniziano a liberarsi dei vecchi in improvvisati mercatini.
Settembre, andiamo. E’ tempo d’insegnare…. Peccato però che si tratti ormai di un’attività ogni anno più vaga e dai contorni sempre meno definiti. La crisi dell’insegnamento è innegabilmente una questione di natura sindacale e politica, ma credo che sia difficile sottovalutare la profondità della crisi della funzione docente in sé, frutto di una lenta ed inesorabile erosione di un ruolo – oggi si direbbe di una mission… – insidiato dai frenetici cambiamenti del modo stesso di vivere, di pensare e di stare insieme. Sono decenni, ormai, che giornalisti, politici, sociologi, pedagogisti ed altri improbabili maȋtres à penser si esercitano a cercare nuove funzioni da assegnare agli insegnanti, visti al tempo stesso come inadeguati e fuori contesto da una certa cultura pragmatica ed utilitarista. E’ come se cercassero di trovare una qualche ragion d’essere che giustifichi la sopravvivenza di una specie classificabile come in via d’estinzione, ma ancora maledettamente numerosa e, diciamolo, costosa per il bilancio dello stato… Naturalmente c’è un disaccordo pressoché totale sulle soluzioni più utili da proporre. Ed ecco che, periodicamente e soprattutto in questi tardi giorni di fine estate, c’è qualcuno che rilancia la questione sui giornali o in servizi televisivi, suggerendo formule innovatrici e ricette per curare quelli che ritiene gli aspetti più deleteri dell’attuale funzione docente.
“Basta con la scuola del cuore.” , titolava giorni fa un articolo su la Repubblica di Marco Lodoli, il quale alla domanda: “Da cosa si può ripartire perché le aule tornino ad essere un luogo centrale per i ragazzi?” offriva la sua soluzione, esorcizzando quella che considera la tendenza corrente ad usare la scuola per insegnare ciò che non si può insegnare, cioè le emozioni, e suggerendo quindi un sano ritorno alla concretezza del pensiero positivo e della logica. “Tutto è cominciato a precipitare nel momento in cui qualcuno ha stabilito che l’emotività è l’unico campo in cui si realizza il giovane”, argomentava Lodoli, lasciando intendere che le nostre scuole siano diventate ormai delle palestre di flaubertiana educazione sentimentale, delle fucine di pascaliana “ragione del cuore”, ovviamente a danno della funzione della scuola come maestra del pensiero logico e della razionalità. Onestamente, pur frequentandola da oltre venticinque anni, non mi ero mai accordo di questa radicale mutazione genetica dell’istituzione scolastica. Al progressivo ed innegabile svuotamento della funzione docente come ruolo d’insegnamento positivo e fattivo di conoscenze stabili e indiscutibili non direi proprio che sia seguita una particolare enfatizzazione della scuola come luogo dove s’impara a vivere i propri sentimenti ed a condividerli con gli altri. Magari fosse stato così. La triste verità è che all’oggettiva svalutazione delle conoscenze “positive” e spendibili praticamente ha fatto seguito solo un confuso e contraddittorio tentativo di riempire comunque l’insegnamento di contenuti e funzioni “sociali”, come la legalità, l’ecologia o la convivenza civile. Ma tutto questo facendone nuove fantasiose materie d’insegnamento e frantumando la fondamentale funzione educativa della scuola in una miriade di “educazioni”, senza peraltro risolvere l’impotenza di questa istituzione ad essere un effettivo luogo di pratica dell’affettività e della socialità. Educare alle emozioni – con tutto il rispetto per l’autore dell’articolo – non ha nulla a che vedere con quella che egli chiama “la cultura del desiderio, che vive di smanie istantanee, puntiformi e distruttive”. Semmai ne è l’esatto contrario, dal momento che ogni processo educativo è qualcosa di formativo, che contrasta la spontaneità istintuale per indirizzare l’emotività e la stessa aggressività naturale verso obiettivi positivi e costruttivi. Lodoli si scaglia “contro chi agita nei ragazzi solo l’emotività, come se la vita fosse solo sballo, divertimento, notti da inghiottire e giorni da dormire e corri dove ti porta il cuore”….
Eppure gli basterebbe trascorrere solo qualche giornata nella scuola, quella vera, per accorgersi della scarsa aderenza di questa visione – sospesa fra il romanticismo didattico da “Attimo fuggente” ed una versione un po’ troppo “Sturm und Drang” – al mestiere svolto ogni giorno da decine di migliaia di docenti, spesso piuttosto anzianotti e disincantati e assai poco in stile “Capitano, mio capitano!”. Non posso negare che in qualche classe sarà anche possibile trovare degli studenti in piedi sopra il banco, ma nutro forti dubbi che stiano lì per acclamare il loro docente-mentore. Probabilmente stanno solo provando i passi del nuovo ballo caraibico o si stanno rilanciando l’uno con l’altro il cappellino del solito “tipo soggetto”… Eppure, sostiene Lodoli , la soluzione è “…ridare forza al pensiero, oggi calpestato dall’orda trionfante e barbara delle sensazioni spicciole, dell’impressionismo e della destrutturazione.”. Opperbàcco – per dirla alla Totò – come accidenti ho fatto finora a non accorgermi che la scuola è in crisi perché è percorsa da questa “barbara” ondata di emotività selvaggia, alimentata dal sacro furore di docenti di scuola irrazionalista ed un tantino anarchici? Mah, sinceramente non mi pare che la scuola italiana sia affetta da questo contagio “new age”, semmai dalla crisi di un’educazione “old age” alla quale non si è stati capaci di sostituire un modello che fosse al tempo stesso creativo e solidamente formativo. I docenti sono troppo impegnati ad evitare il loro progressivo sterminio e la cancellazione del concetto stesso di scuola pubblica per preoccuparsi di questo preoccupante vuoto. Eppure esso finirà sempre più per giustificare l’inutilità del loro ruolo, razionalizzandone la pesante ristrutturazione in chiave aziendalistico-produttivista.
In prima pagina, Le Monde del 1° settembre, non a caso pubblicava un articolo sulla pesante riforma dello “statut des enseignamts” che si sta preparando Oltralpe. Le pagine 11 e 12 del quotidiano francese sono interamente dedicate a questo problema, salito improvvisamente “au coeur du dèbat” con lo scopo di “ridefinire il mestiere” dei docenti, modificandolo profondamente senza però urtare troppo i loro sindacati e senza compromettere gli equilibri di una stagione pre-elettorale. La destra vuole seriamente mettere in discussione lo statuto degli insegnanti – che ne definisce compiti ed orari dagli anni ’50 – mentre la sinistra è più cauta e misurata, pur condividendo in buona sostanza questa riforma. “Diminuire lo scacco scolastico senza rendere fragile una professione in sofferenza”, sottotitolava una di quelle analisi di un ripensamento dello statuto dei professori che al tempo stesso non li destabilizzi. Tradotto in linguaggio meno politichese, ciò significa cercare insieme – destra e sinistra – il modo più opportuno e meno dirompente per ridurre il numero degli insegnanti, raddoppiandone quasi l’orario di servizio. “Il metodo buono – si spiega nel corsivo – è quello di far comprendere che tutti quanti guadagneranno da questa ridefinizione. Il ragazzo, poiché inventare una scuola ‘su misura’ significa attaccarsi allo scacco scolastico. Il professore, che saprà meglio che cosa ci si aspetta da lui. Il paese intero, la cui competitività passa anche attraverso la scuola.”. Altro che scuola del pensiero anziché delle emozioni! Il vero problema è come convincere tutti che la progressiva sparizione della specie “homo docens” costituirebbe un beneficio comune, visto che costerà meno risorse allo Stato, vista la drastica riduzione del numero dei docenti. D’altra parte, se è vero che un prof da 35 ore settimanali costerà più di uno da 18 – argomenta ancora Le Monde – varrà la pena di fare questo investimento che, a lungo termine, si rivelerà produttivo…..
Ma oggi è cominciata di nuovo la scuola e non è il caso di soffermarsi su queste elucubrazioni. Il sipario si alza ancora una volta su un palcoscenico polveroso e traballante ma confidiamo sulla sperimentata capacità dei docenti di “recitare a soggetto” e – come meno elegantemente si dice a Napoli – di “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone”. Settembre, andiamo. E’ tempo d’insegnare…
© 2011 Ermete Ferraro

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